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LA MITICA 4B GEOMETRI
di Franco Caparrotti

 

Sfogliando i ricordi ormai lontani e poi rivedendo la foto della “mitica”, almeno per noi ex-alunni, della 4B Geometri (cliccare qui per una foto di gruppo di quella classe), ecco rivivere d’incanto momenti di assoluta spensieratezza dove a prevalere erano le burle, i bigliettini amorosi, il the danzante al CUA e infine lo studio.
Iniziammo il primo anno nel 1966/67 con un gruppo multi etnico e particolare che nel corso del primo e del secondo anno cambiò notevolmente perdendo alcuni “pezzi” ed acquisendone altri per poi rimanere consolidato e soprattutto affiatato tra il terzo ed il quarto anno.
Ormai consapevoli di aver raggiunto il traguardo molto (ora lo posso dire e certificare) irresponsabilmente, ci prendemmo delle libertà che anche al giorno d’oggi farebbero drizzare i capelli o far venire la pelle d’oca. Questo ci costò caro nella votazione finale: comunque era fatta ed era quello che contava di più.
Rivedendo la foto di classe posso dire che eravamo veramente dei “banditos” e che i nostri cari professori (almeno la maggior parte) sono state vittime ingiuste delle nostre birichinate che racconterò (alcune) qui di seguito.
Un giorno, dopo la ricreazione, si aveva lezione di amarico con il Prof. Zerejohannes o, come affettuosamente lo chiamavamo noi alunni, “Leprotto”. Il prof, come di consueto, attendeva il gruppo fuori della porta. Il suo registro era in vista sulla cattedra, pronto per l’appello e per l’interrogazione. Paolo Saragozza (non me ne avere, ormai sono passati quasi 30 anni), diede prima uno sguardo dietro per verificare di non essere visto dal prof e poi, in modo fulmineo, afferrò il registro e lo fece volare fuori dalla finestra. E qui si vide l’affiatamento della classe, il classico “tutti per uno, uno per tutti”. Il caos che si creò era a dir il vero spaventoso. “Leprotto”, adirato e isterico, minacciava le conseguenze più atroci. Voleva che il registro saltasse fuori. Passati i primi cinque minuti da incubo (per lui), corse a chiamare il Preside. La situazione diventava sempre più grave, ci veniva interdetta la ricreazione, fummo minacciati di non essere ammessi all’esame. Alla fine il preside si convinse che forse il prof aveva dimenticato il registro in sala professori o probabilmente a casa. Ispezionarono le nostre cartelle, guardarono anche fuori dalla finestra e per nostra fortuna non lo scorsero. L’ora di lezione era passata, si aspettava ormai il peggio quando il registro fu ritrovato lo stesso pomeriggio da Abraha, il bidello, che lo diede al buon Dionisio (prof di Topografia pratica) che sorvolò, salvandoci la pelle, facendoci però una bella strigliata.
Passarono alcune settimane e questa volta a farne le spese (purtroppo con nostro rammarico) fu proprio il nostro caro professore di topografia pratica, Dionisio. Stranamente succedeva sempre dopo la ricreazione. Avevamo lezione di topografia con Morelli ma, essendo indisposto da un paio di giorni, aveva lasciato il compito al suo collega. La classe era ormai tutta dentro e del prof nemmeno l’ombra. Cosa c’era di meglio di una battaglia a gessate? I pezzettini di gesso volavano dappertutto, uscivano anche dalla finestra ma il più delle volte arrivavano a bersaglio. Improvvisamente la porta di classe si aprì e si stagliò la figura tipica del buon Professor Camillo, con la sigaretta pendente da un lato alla Humphrey Bogart. E come farlo apposta, un gessetto andò a colpire la bocca del prof: la sigaretta che si ruppe e la parte accesa finì nel taschino. Fece in tempo a chiudere la porta che altri cinque o sei gessetti colpirono rumorosamente l’uscio. Calò un silenzio di tomba. La porta si riaprì e rosso in faccia e fumante di rabbia, il prof non poté fare a meno di rifilarci una “nota”. Ci fece raccogliere i gessetti, ci sottopose ad una ramanzina, apostrofandoci con epiteti irripetibili.
La vittima successiva fu il beneamato bidello Abraha che puntualmente assecondava ogni nostro desiderio e a volte diventando nostro “complice” nel vero senso della parola. Non so se vi ricordate di come Abraha, udendo il rumore chiaro di una flatulenza, a dir poco saltava da terra! Il nostro Abraha era solito portare, in modo assai distinto, un vassoio con una tazzina di caffè, il latte e lo zucchero al prof. Eboli. Puntualmente il prof elargiva lauta mancia. Potete immaginare cosa capitò: uno dei nostri, probabilmente il sottoscritto o Cataldo (scusate l’amnesia), lasciò partire una pernacchia sonora nell’attimo in cui Abraha aprì la porta della seconda classe per consegnare il caffè. Egli saltò in aria e il vassoio con il suo contenuto finirono addosso al professore. Non si seppe mai chi fosse stato...
E veniamo ora alla volta in cui il sottoscritto fu la mente della bravata che non coinvolse, se non marginalmente, i nostri insegnanti. Tra noi era consuetudine dividere o meglio “scroccare” quanto più possibile. Dal tiro della sigaretta, alla “cicca” stessa, dal pezzo di pizza a un pezzo di panino, caramelle, cioccolato e via discorrendo. Essendo io stesso nella maggior parte dei casi la “vittima”, decisi di castigare i miei compagni. Come? Purgandoli. Comprai un scatola di cioccolatini e delle chewing-gum purgativi. Il problema era come somministrare con benevolenza certe leccornie senza destare sospetti. Decisi di coinvolgere tre dei miei compagni: con il loro aiuto sarebbe stato tutto più facile. Raccontai a Italo Di Iorio, Valentino Valente e Giulio Biot della mia intenzione ed essi decisero di partecipare o fungere da “palo”. Così nell’intervallo fra la seconda e la terza ora iniziammo a mangiare della cioccolata (buona) e puntualmente, come avvoltoi, i nostri compagni di classe iniziarono ad allungare le mani. All’inizio con una certa riluttanza e parsimonia cominciammo a distribuire i cioccolatini. A missione compiuta, si aspettava l’effetto. Il primo a farne le spese fu Tedros Dawit al rientro dalla ricreazione. Per inciso, la "purgata" era continuata e completata durante la ricreazione quando distribuii le chewing gum anche ai miei complici: “Alea iacta est.” Torniamo a Tedros. La 4° ora dopo la ricreazione era di amarico. Finito l’appello, “Leprotto” notò Tedros in prima fila contorcersi in evidente stato di disagio... intestinale. Quando questi si alzò per chiedere il permesso di correre in bagno, il prof puntualmente lo negò ma il nostro malcapitato compagno senza perdere tempo si saettò fuori. L'adirato professore prese il registro per mettere una nota e a questo punto tutta la classe si riversò verso la cattedra togliendogli di mano il registro dicendo al prof che non era sensibile e che certe cose potevano capitare anche a lui. Tornammo al posto e “Leprotto” andò a verificare di persona che effettivamenteTedros era in bagno. Di li a breve fu la volta di Domenico, poi di Fichera e la processione si ripetè anche durante la 5° ora. Noi ghignavamo sotto i baffi ma i miei complici non sapevano che da lì a poco sarebbe stato il loro turno. Al rientro pomeridiano per le due ore di lezione previste, notai una calma apparente. Tutto sembrava normale ma quelli che mi destavano sospetto erano proprio Italo, Valentino e Giulio, calmi come se niente fosse accaduto. Finita la scuola, all’uscita successe tutto all’improvviso. Fui letteralmente imbragato e messo a terra. Braccia e gambe imprigionate, il bravo Valentino che mi chiudeva il naso con due dita costringendomi ad aprire la bocca per respirare. Mi furono introdotti in gola ben due cioccolatini e fui rimesso in “libertà” solo e quando avevo ingoiato il tutto. Avevo imparato la morale del “Chi la fa, l’aspetti”. Quel pomeriggio conobbi molto intensamente “la tazza” del CUA prima, e poi quella di casa. Alla fine, anche se purgato, ero contento di essere riuscito nel mio intento.
Avrei altre storie e aneddoti da raccontarvi, però non voglio annoiarvi, quindi se noterò un certo riscontro da parte vostra, mi riprometto di raccontarvi anche gli altri episodi. Inoltre vorrei invitare non solo i miei compagni di classe ma tutti i lettori a raccontarci le loro storie che sono poi anche le nostre storie. Quindi coraggio!!!


7 Gennaio 2010



QUELLE DELLA YAMAHA E… DELLA KAWASAKI
di Vittoria Ghevrejesus
 
o O o

Mancano un paio di giorni alla mia partenza per Stati Uniti e Messico e sono alle prese con le ultime commissioni e con i bagagli… Arriva una e-mail da Anna: "… perdonami se arrivo sempre all'ultimo minuto… ricordi quelle foto scattate nel mio giardino ad Asmara… io, te e Marilisa con le nostre moto…? Le ho ben stampate nella memoria, ma le ho cercate dappertutto e non riesco a trovarle, tu le hai senz'altro… Vorrei fare una sorpresa a Marilisa e portargliene una, la più bella, ingrandita ed incorniciata, in ricordo dei bei tempi e della nostra grande amicizia". Trovo l'album, lo sfoglio… ecco le foto scattate nel giardino di casa Matteoda in un caldo pomeriggio estivo… noi tre con le nostre fiammanti e amate moto: la mia Yamaha trial 100 color senape e la Kawasaki 100 da cross di Anna color rosso-arancio con strisce in contrasto…
Era il 2 giugno 1972, avevamo poco più di 16 anni!
Eravamo… quella della Yamaha e quella della Kawasaki!

o o O O o o

Non era stato semplicissimo farsi regalare la moto dai nostri genitori… Io avevo fatto leva sui buoni risultati scolastici e sull'amore di papà per i motori… Anna invece ricorda ancora con grande tenerezza le parole pronunciate da mamma Virginia: "… non l'avrai mai finché io sono in vita…"! Ma la settimana dopo suo papà Alberto l'aveva accompagnata, sornione, da Pastacaldi per l'acquisto dell'oggetto del desiderio!
Che gioia e che sensazione di libertà scorrazzare in sella alle nostre moto lungo i bei viali del centro di Asmara, la strada per l'aeroporto, le stradine sterrate dalle parti delle "antenne" e i boschetti di eucalipti della nostra concessione agricola!!

o o O O o o

Al mattino Anna passava a prendermi sotto casa, il suo arrivo era preannunciato da un rombo acuto e scoppiettante ed una scia di fumo scuro, addosso una casacca militare tinta di nero con il simbolo della pace ricamato sul taschino, un basco di panno verde per proteggere i lunghi capelli dall'aria frizzante del mattino e dai fumi olezzanti della Kawasaki, ed una tracolla piena di libri.
In sella ai rispettivi "bolidi" raggiungevamo il Liceo Martini nella nuova sede vicino al cinema Capitol e il breve percorso insieme era occasione per scambiare due parole sulle interrogazioni e sui compiti che ci attendevano e per fare due risate con naturalezza e complicità.
Nel pomeriggio, dopo esserci trovate a casa di uno o dell'altro compagno di scuola per i compiti, un paio di "vasche" lungo viale Roma o viale Hailè Sellasiè e poi un salto all' American Bar da Smanio per un'"indiana", una pizza sottile con il "caria" piccante, buonissima. Al sabato, finite le lezioni, una puntata (sempre a cavallo delle moto) al bar Royal con gli amici di scuola per una birretta scura con mezzè, e nel pomeriggio un cinema sempre con la combriccola, o… massimo dei massimi, una bella festa a casa di questo o quello, in attesa del pomeriggio domenicale al CUA dove si ascoltava la musica, si ballava, si sognava.

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Mitica era stata una vacanza a Massaua con la moto; io non avevo ottenuto il permesso di portare la mia Yamaha, Anna invece aveva fatto tutto il viaggio Asmara-Massaua in sella alla sua Kawasaki seguita dal papà in macchina. Una volta a destinazione ci spostavamo in tre (Anna, Danila ed io), sull'unico mezzo di locomozione a nostra disposizione… percorrendo Taulud a tappe… durante le quali una delle due "passeggere" faceva dei tratti a piedi per evitare i poliziotti del "traffico" per poi risalire in sella una volta imboccata la strada verso Gurgussum: un tuffo nelle acque calde del nostro Mar Rosso, un po' di sole, un panino al tonno, un frullato di papaia al bar di Ramadam. Poi una corsa fra le dune della bellissima spiaggia di De Paoli ed un tuffo ristoratore in tarda sera in mezzo alla fosforescenza… con gli amici e i compagni di scuola più cari.
Era una caldissima estate, avevamo appena dato gli esami di maturità ed eravamo pieni di sogni. Sarebbe stata la nostra ultima estate veramente spensierata e felice. Di lì a poco ognuno avrebbe seguito il suo destino, chi in Italia e chi negli Stati Uniti per frequentare l'università, e le nostre adorate moto sarebbero rimaste ad Asmara ad aspettarci, ad attendere invano un'altra estate di corse spensierate !

Queste eravamo noi: sorridenti, ironiche, piene di vita, i lunghi capelli svolazzanti al vento…

o o O O o o

Missione compiuta: Anna ed io abbiamo consegnato a Marilisa la foto di noi tre con le moto… la famosa foto scattata nell'estate del 1972… Ci sono stati abbracci e occhi lucidi… per i bei ricordi del passato… e per le grandi emozioni del presente…
Ci mettiamo in posa per una nuova foto: noi tre… oggi… con lo sfondo di un bellissimo mare turchese…
Abbiamo sempre lo stesso sorriso e i capelli svolazzanti nel vento…!

Vittoria

o o O O o o

P.S: noi eravamo quelle della Yamaha e della Kawasaki… ma all'epoca c'erano anche… quelli della Gilera, della Ducati, della Honda, della Suzuki, e dopo avere visto Easy Rider e Woodstock anche quelli del… "chopper"!
Centauri di allora, dove siete?


20 Aprile 2010




IL RITO (!)... ROGE'
di Daniela Toti
 

L'Epifania tutte le feste si porta via!
E dopo le festività, ecco che dalle ferie natalizie si riprende la vita dei giorni feriali/lavorativi. Oggi c'è chi è tornato dai monti per la neve, chi da qualche esotico posto per il mare, chi da qualche capitale Europea e chi è rimasto beatamente a casa in famiglia.

A quel tempo si andava a Massaua, partendo da Asmara a S. Stefano e tornandoci dopo Capodanno. I più fortunelli tornavano dal mare per l'inizio della scuola, che era sempre dopo l'otto gennaio, dato che il Natale Copto era incluso nelle festività. Noi invece si proseguiva per Elaberet, da papà, dove nell'ultima settimana dovevamo fare anche tutti i compiti delle vacanze; ma prima di proseguire, la tappa ad Asmara per il cambio delle valige ma soprattutto per il "rito Rogè".

Ve la ricordate la malinconia del rito assoluto della purga per il cambiamento d'aria, che andava ad aggiungersi alla malinconia del rientro dalla vacanza al mare?

Le cose per noi andavano più o meno così: un ultimo bagno (prolungato al massimo: "ancora un pochino", "aspetta che faccio un'immersione", "guardami che mi tuffo..."), quindi doccia e partenza.
Tentativo di mamma di tirar su il morale intonando un'allegra canzone alla quale trovava riscontro una fiacca e mesta risposta.
Arrivo a Ghinda dove bisognava mettere il golfino ma dove ci attendevano anche i meravigliosi panini al tonno o salame della Signora Maria al Buon Respiro e infine la tratta dei tornanti (ma perché li chiamavamo tourniquet?) spesso nella nebbia.
Ad Asmara il freddo della casa chiusa da una settimana, l'aria asciutta da screpolare le labbra e, soprattutto, l'aranciata Rogè! Maledizione, l'aranciata Rogè! Odiavamo l'aranciata Rogè!
Inevitabilmente però, obbedientemente si buttava giù - sebbene a fatica - la tiepida bevanda che sfrigolava nel naso rendendo così invisa per l'eternità ogni futura bibita al sapore di aranciata.
E nemmeno la consolazione di una caramellina, niente: solo chai fino a sera.

La medicina dell'epoca aveva una fissa per la pulizia dell'intestino. Più che mens-sana-in-corpore sano era intestino-pulito-per-corpore-sano. All'uopo in ogni bagno gufava bieco un cilindro di vetro graduato con un lungo tubo di gomma... l'avete riconosciuto? Il clistere o enteroclisma! Non so bene cosa fosse che ne alternasse l'uso a quello dell'aranciata Rogè. Tant'è che lo collego ai febbroni, quelli che ti pareva ti cadesse addosso tutta la mobilia della stanza, e che trasformavano i bisbigli di chi entrava in suoni alterati e inquietanti, che ti facevano soffrire la sete perchè anche un goccio di acqua faceva male alla gola, quelli che temevi perché - più prima che poi - avrebbero tirato in ballo il clistere. E i familiari che assistevano non aspettavano che il medico lo proponesse, no! Lo proponevano loro al medico: "E che ne dice di un clisterino, dottore?" e lui conciliante: "Ma sì, che non ha mai fatto male a nessuno!"
Ma come, destino cruel, non bastavano il febbrone e i relativi incubi? Volevamo proprio esagerare con il destino avverso?

Indeboliti dalla febbre, svuotati nell'anima e soprattutto fiaccati nella dignità (perché sebbene la zona coinvolta trovasi dove l'osso sacro diventa laico, sempre di lesa dignità si tratta!), bisognava ovviamente tirare su i poveri spiriti, e cos'altro c'era di più valido se non il brodino ristretto?
Questo veniva amorevolmente preparato con una procedura da alchimia: in un vasetto di vetro sterile si metteva un pezzo di manzo rosso con qualche verdura e quindi si faceva cuocere per ore a bagno-maria fintanto che si creava un liquidaccio scuro. Ecco ottenuto il toccasana per eccellenza, il resuscita-morti garantito, il tirami-su prima maniera, (l'attuale è senz'altro il frutto della rivoluzione culturale sessantottina che ha voluto ribaltare - nel ribaltamento generale - anche il senso del tirami-su-brodo-ristretto sostituendo gli ingredienti originali con tutto ciò che l'ammalato all'epoca sognava: savoiardi, mascarpone e cioccolato...)

Per nostra fortuna non è mai entrata in casa l'usanza dell'altro alimento principe per il giovane in crescita negli anni 50/60: l'olio di fegato di merluzzo che allora veniva crudelmente somministrato al cucchiaio così che il sapore mortificasse e avviluppasse appieno le papille gustative.
Beati i giovani in crescita nel 2000 che l'eventuale olio di fegato di merluzzo l'hanno in capsule insapori. Il che eviterà loro future lunghissime e costosissime sedute in psicoanalisi... perché è lì che alla fine portano tutte queste tristi storie!

Buon 2011, buon tutto, ma proprio tutto!

D.


6 Gennaio 2011



QWERTY!@#[?]-§/ç
di Daniela Toti

 

Con la chiusura a Mombai dell'ultima fabbrica rimasta al mondo a produrre macchine per scrivere finisce davvero un'era. Mi diverte raccontare a-quelli-nati-dopo della mia mitica Lettera 32, e mi delizia ravvisarne l'incredulità come se ascoltassero fantasticherie più che verità dei tempi andati…

La Lettera 32 e le sue sorelle avevano il buon vantaggio, sui loro attuali pronipoti informatici: la stampante incorporata e nessun bisogno né di elettricità e né di pile. Il numero uno (1) non c'era sulla tastiera, perché si poteva e doveva usare la lettera elle minuscola e non la "i" maiuscola, come ci aveva insegnato il Prof. Pieri (Steno e Dattilo) al Bottego. Un tocco di classe.
Per fare le righe verticali, si bloccava la barretta spaziatrice con una matita e quindi usando il punto esclamativo si girava il carrello manualmente di uno scatto; per le correzioni si inseriva una cartina tra l'errore e la testina del tasto, che copriva con un'impronta bianca gessata la lettera sbagliata. O con il bianchetto in boccetta, tipo smalto bianco opaco, che richiedeva però del tempo per asciugare, per cui si soffiava per accelerare l'asciugatura. Sistema via via perfezionato, passando dalla meccanica all'elettronica, dapprima con un nastrino coperto di una specie di biacca bianca asciutta, che parallelo a quello dell'inchiostro, all'occorrenza copriva il carattere sbagliato, oppure ancora l'uso di un nastro nero che lasciava sulla carta l'impronta del tasto in un materiale plastico correggibile che in caso di errore poteva essere asportato appiccicandosi al nastrino adesivo affiancato...
Per il centramento dei titoli c'era una sua formuletta ben precisa: si contavano le lettere e gli spazi del titolo, si sottraevano allo spazio del testo e si divideva per due: quello era il punto di partenza per scrivere il titolo, che sarebbe stato perfettamente inquadrato.

E che dire delle copie carbone? Il mio primo impiego fu come segretaria alla Scuola Media A. Volta, Sezione Centro di Asmara. Il mio capufficio era il preside Danilo Barbini, che voleva una copia su carta velina di tutto quello che si scriveva. La carta velina andava corretta nel caso di errore isolando la copia con un foglietto tra la carta carbone e la velina. La velina si correggeva con la gomma (rischiando 9 volte su 10 di bucare il foglio), l'originale con il correttore e poi ci si doveva ricordare di togliere il foglietto che isolava la carta carbone, perché se no la copia non veniva fuori. Credo che nell'archivio della Scuola Media di Asmara, se sono rimasti dei documenti di quegli anni, alcune copie risultano inspiegabilmente prive di parti di testo…

All'inizio non avevamo la fotocopiatrice, nemmeno quelle con la stampa che usciva prima in negativo e poi in positivo o quelle successive con la carta chimica dall'odore acre che però sbiadiva con il tempo, ma avevamo il ciclostile.
Questo marchingegno funzionava così: si scriveva il testo privando la macchina da scrivere del nastrino del colore in modo che il tasto imprimesse il carattere nel sottile foglio speciale rivestito da uno strato di cera. Per gli errori questa volta si usava uno smalto, sempre soffiando per asciugarlo subito, che riempiva la parte di cera perduta e a sua volta poteva venire impresso nella correzione. Il foglio veniva quindi agganciato al rullo ben inchiostrato della stampante e il carattere che imprimendosi aveva tolto lo strato di cera, lasciava passare l'inchiostro sul foglio da stampare. Si potevano fare anche un centinaio di copie con una matrice, sempre che rimanesse ben stesa senza pieghe, e che le "o" non creassero via via dei veri e propri buchi risultanti in brutte macchie di inchiostro.

Eravamo ad Addis Abeba quando istallarono il telex in ufficio. Una macchina per scrivere che riproduceva lo scritto su un'altra macchina anche ubicata oltre mare! Usando le linee telefoniche e il relativo costo, questo veniva ridotto preparando prima il testo su un nastrino perforato e, una volta iniziata la connessione, il nastrino veniva quindi trasmesso ad alta velocità.
Wow, che meraviglia di tecnologia!
Veramente Hiritì non disse "wow!" ma bensì "Wai, Sheitan!!!" quando, pulendo l'ufficio il mattino prima che entrassero gli impiegati, vide accendersi all'improvviso la diabolica macchina, stampando senza l'aiuto di nessun operatore!
La povera Hiritì schizzò fuori della porta con la stessa grazia spigolosa di Olivia, la morosa di Popeye e ci volle parte della mattinata per tranquillizzarla e convincerla che il diavolo poco aveva a che fare con il nostro nuovo telex.

E fu il fax a mandare il telex in soffitta, ma questo è presente già insidiato da scanning e e-mail.
Durante le lezioni di ragioneria, per il giornal mastro in partita doppia, si usava la @ chiamata A commerciale. Ed è così che l'abbiamo conosciuta noi, che imparavamo le cose in quegli anni.
Poi fu internet e usarono la @ per le e-mail e se oggi chiediamo ai nostri figli, che chiamano la @ "chiocciola" oppure "at", cosa sia una A commerciale, rimangono colti alla sprovvista nel sentire che esisteva già "prima".
E allora, personalizzandone l'uso, io (generazione di mezzo) quando mando un SMS oppure una mail familiare, chiudo con uno o più @:
@ come abbraccio.
D.


7 Giugno 2011


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