LA MINI ...
Si
dice che fu inventata da un francese ma a renderla popolare fu senz'altro
la signorina Quant delle Chelsea Girls. Si dice anche che fu l'avvio
della società permissiva. Io dico che fu una splendida rivoluzione.
Ricevo questo omaggio scritto alla mini (intesa come gonna) e mi
percorre un fremito. E immagino la disperazione di imprenditori
tessili, fabbricanti di bottoni, industriali dell'orlo a giorno
che si saranno messi in cassa integrazione da soli in quei giorni
di tessuti corti ma così soavemente solari per le pupille
maschili. E adesso, dopo trent'anni e anche più, ringrazio
le nostre audaci girls per quelle memorabili orchestrazioni stilistiche
che ci fecero sognare, disperare e capitolare.
il C.
di
Daniela ...
Nel
discorso virtuale tra Lord Kikki e Lady D. di qualche giorno fa,
è venuta fuori la minigonna.
Come è stato? Ma sì, si era partiti dalla similitudine
della borsa di Mary Poppins con la mia testa piena di cose come
la borsa di Mary, o forse più come la tasca di Eta Beta.
Nella mia testa ci si trovano capitoli di libri non finiti, musiche
che hanno perso il titolo, sogni appena più sfocati, che
però riprendono i nitidi contorni se inforchi gli occhiali.
Ci trovi partite di rugby seguite con il fiato sospeso conoscendo
solo il 20% delle regole, mazzetti di parole fermate insieme da
un elastico: chat, firewal, download, upgrade, financo un Nerone-che-brucia-Roma
(e questo che c'azzecca? Farà mica parte di un mazzetto diverso?
Eppure
Nero Burning Rom...).
Come dalla borsa di Mary (il film l'abbiamo visto al Cinema Corso
di Massaua, quello che invece di indicare "stasera" si
ostinava imperterrito ad indicare "ce soir" e mi sono
sempre chiesta il perché) escono gli aggeggi più impensati,
ugualmente ne escono dalla tasca del gonnellino - mini - di Eta
Beta. Il Topolino di quegli anni, che mi attendeva ogni settimana
all'edicola di Peraldo, dava ampio spazio a Eta Beta, ed io ho sempre
invidiato ad Eta quel minuscolo gonnellino (in linea con la moda,
furoreggiava Mary Quant, non dimentichiamolo) con quella cornucopica
tasca.
La
minigonna: che rivoluzione, dice Lord Kikki. Che problema, dico
io! Importata ad Asmara col rientro dalle vacanze estive oppure
anticipata da qualche studentessa universitaria asmarina in Italia?
Tra le prime che ricordo è senz'altro il mini-grembiule che
indossava all'Istituto Bottego Zeudi Araya. Mini era mini e le gambe
lo permettevano. Aveva inoltre un orlo a cappette, e su ogni cappetta
un bottoncino bianco. Da lì il soprannome "Peter Pan".
Fatto è che la mini metteva subito in discussione il "sopra-ginocchio",
fino a quel momento al sicuro, tranquillamente coperto dall'orlo
della gonna o dal pantalone lungo (jeans era ancora una parola abbastanza
straniera, per lo più americana ma comunque lontana dall'avere
fissa dimora nel nostro guardaroba). Il "sopra-ginocchio"
è un argomento estremamente complicato: può comportare
convergenza, divergenza, eccesso, scarsità e, per carità!,
rotula a palla oppure a spigolo-tipo-l'Olivia-di-Popeye.
E non è finita qui: mini-con-collant o mini-senza-collant.
Perché nello stesso periodo anche il collant appariva ad
Asmara. I primi alla Kagnew Station. Bene se avevi un'amica americana
che te li "tirava fuori", come si diceva, se no potevi
trovare qualche ambulante che, come merce pregiata e rara, ti sussurrava
con aria complice: "Vuoi collant?"
Mini-con-collant è più facile, non impegna. Il collant
uniforma, contiene, abbellisce. Mini-senza-collant, per un risultato
lisce-come-la-seta, implica l'intervento, se non propriamente di
martello e scalpello, senz'altro di creme, limone, pietra pomice,
e magari di diete, ginnastica, massaggi... solo perché la
liposcultura non c'era ancora, se no un pensierino, magari...
Finalmente, raggiunta la soluzione accettabile, ecco indossata la
mini. E fin qui tutto bene. Una sta in piedi, le gambe vezzosamente
incrociate altrimenti qualsiasi difettuccio emerge e la mini cade
come deve. Ma se ti pieghi? Ahinoi! E se ti siedi? Ahiahiahi! La
vorresti elastica, 'sta mini, la tiri ma non vien giù, la
tiri, ma non copre. Scopre tutto, 'sta mini... e l'occhio cupido
dei maschietti sussulta, strabuzza, rotea e sdilinquisce.
Oggi, riapparsi mini e jeans bassi, osservo lo stesso maneggio di
tiraggio nelle ragazzine che frequentano casa, in giù se
è mini e in su se è jeans basso. Scuoto la testa,
consapevole che in fondo certe cose dopo anni, e a paralleli diversi,
non sono poi cambiate molto.
Ma sono cambiata io. E non dico fisicamente (ahinoi+ahiahiahi!!!),
ma ho finalmente capito (veramente l'ha scritto qualche saggia donna
e io me ne sono appropriata) che "nella vita ci sono cose più
importanti delle cosce magre o delle ginocchia perfette; oggi posso
persino scrivere senza errori la parola "tomografia assiale
computerizzata!"
E non è poco... diciamocelo!
D.
...
e quella di Elvira
|
Elvira, il giorno della
sua laurea (1972), e la mini
|
Ah,
la minigonna! Simbolo della liberazione della donna dalla plurisecolare
schiavitù delle gonne lunghe, affrancazione dalle sottogonne
e dalle sottane, emancipazione dai reggicalze con annesse giarrettiere,
dai corpetti con o senza stecche di balena e dai bustini mozzafiato.
Con la minigonna il mozzafiato non mancava, ma, tanto per cambiare,
non ne soffriva chi la indossava.
Le riviste che giungevano dall'Italia ne testimoniavano la moda
dilagante ed in Asmara le prime ad indossarla furono appunto le
ragazze che rientravano dalle vacanze estive trascorse in Europa.
C'erano varie versioni della minigonna: si partiva da quella moderata
che si attestava a qualche centimetro sopra il ginocchio per arrivare
a quella supercorta, tipo gonnellino da tennista, con l'orlo appena
appena sotto l'inguine. I giovanotti che, soprattutto di domenica,
si raggruppavano davanti alla Cattedrale, salutavano con frizzi
e commenti tanto ben di Dio. Se poi Eolo li favoriva con qualche
sua folata dispettosa che accennava a sollevare quei pochi centimetri
di stoffa, i fischi e le risate si sprecavano tra commenti salaci
e occhiate di fuoco.
Mio padre, siculo verace e tradizionalista, con l'indice accusatore
puntato sulle versioni 'osé' riportate sui rotocalchi, scuoteva
la testa borbottando tra i denti che la decenza ed il decoro stavano
scomparendo grazie al permissivismo di certi adulti. Mia madre,
che successivamente e per mia fortuna si sarebbe rivelata più
liberale e più pronta ad accettare il cosiddetto "generation
gap", per il momento prudentemente annuiva in silenzio.
Non diverse da quelle paterne furono le reazioni di mia nonna e
di mia zia che dopo aver guardato e riguardato incredule gli esemplari
di minigonne e gambe nude riportate in abbondanza sulle riviste,
espressero il loro sconcerto con un coro di "uai", ripetuti
più volte. Mia nonna, riacquistato l'uso della favella, concluse
senza mezzi termini che solo la pazzia poteva causare una tale indecenza.
Mia zia, seduta accanto a lei, con la futa che le copriva anche
la bocca, segno di grande sconforto, a corto di parole, scuoteva
la testa in sù e in giù, in segno di perfetta sintonia
con il parere materno.
Ovunque sembrava serpeggiassero correnti e controcorrenti di avanguardisti
e di tradizionalisti. La stessa cerchia degli amici dei miei genitori
si era divisa in tre fazioni: i favorevoli, i contrari e gli indecisi,
gruppo più sparuto. I primi tacciavano i secondi di essere
degli antiquati, fuori dal tempo e dalla realtà, correnti,
insomma dei "matusa sotto naftalina"; i secondi gridavano
allo scandalo e si ergevano a giudici, condannando la rilassatezza
dei costumi che, sostenevano con tono profetico, avrebbe distrutto
il tessuto morale della nostra società. Gli indecisi, eternamente
ondeggianti nella loro irresolutezza, non venivano neanche tenuti
in considerazione.
Per conto mio, date le premesse, sapevo che, per poter arrivare
ad indossare la minigonna, la strada da percorrere era assai difficile
e tutta in salita. Intanto dovevo armarmi di calma, pazienza e tenacia,
ma se di quest'ultima sembravo disporne in abbondanza, la carenza
delle prime avrebbe presto lavorato a mio sfavore; però,
facendo mio il vecchio detto "volere è potere",
iniziai la mia personale battaglia centimetro per centimetro, nel
senso sia letterale che figurato della parola.
Se da una parte ripetevo la litania dei "ma cosa ci sarà
di male
tutte la indossano
va di moda", giorno
dopo giorno senza desistere, come la goccia cinese, nell'intento
di abbattere la resistenza dei miei genitori, dall'altra passai
ai
fatti, cioè iniziai ad accorciare la gonna arrotolandola
in vita fino a portarne la lunghezza appena sopra il ginocchio.
Un golfino blusante per nascondere quello strano rigonfiamento in
vita e le calze di nylon completavano il quadro d'insieme, sicuramente
un passo avanti verso la meta, ma quanti centimetri ancora da eliminare!
La manovra, ai miei occhi impercettibile, sembrava fosse passata
inosservata. I miei genitori si mostravano distratti e indifferenti
al punto che baldanzosamente, mandando all'aria i buoni propositi
di prudenza, detti un'ulteriore "aggiustatina" alla gonna
facendola salire di altri centimetri sopra il ginocchio, ma, ahimè!,
l'eccessivo rigonfiamento da ciambella-salvagente intorno alla vita
mi tradì. La sconfitta fu cocente; l'ordine tassativo di
mio padre mi costrinse a retrocedere al punto di partenza, tutta
colpa della mia solita irruenza!
Ma una battaglia persa non vuol dire che la guerra sia conclusa.
Ripartii più infervorata che mai con l'intento questa volta
di sfondare il fronte materno; avendone, infatti, già notato
in varie occasioni la maggiore apertura di vedute, ero sicura che
se la convincevo a schierarsi dalla mia parte, prima o poi anche
mio padre avrebbe finito per capitolare. Così iniziai la
mia campagna persuasiva. Ogni volta che uscivo con la mia genitrice
non perdevo occasione per farle notare questa o quella ragazza,
più o meno mie coetanee, che indossavano la minigonna. Seguivano,
poi a mitraglia le mie domande - invariabilmente senza risposta
- del tipo: "Ma che c'è di male? Perché loro
sì e io no? Quando finirete di farmi sentire ridicola con
queste gonne "da suora" o avete per caso deciso che il
mio futuro dovrà essere il convento?" e via di questo
passo, alternando al tono accorato quello ribelle, per ritornare
a quello accorato. Quando capivo dal cipiglio di mia madre che stavo
esagerando, ripiegavo sul silenzio, intervallato da una serie di
sospiri a mantice che avrebbe commosso anche i sassi. Dai e dai,
la mia tenacia fu premiata. Più per stanchezza che per commozione,
mia madre accettò, infatti, di parlarne a papà. Non
fu facile, né si risolse al primo tentativo. I miei genitori
conferirono più volte, a lungo ed a quattrocchi. Dalla porta
chiusa della loro camera da letto mi giungevano - a brandelli -
le argomentazioni con cui mia madre smantellava, ad una ad una,
le resistenze di mio padre, vincendone l'iniziale, ed apparentemente
irreversibile, diniego fino ad ottenere il tanto sospirato placet.
E fu così che la minigonna entrò a far parte del mio
guardaroba, però il gusto dolce della vittoria veniva compromesso
dall'atteggiamento di mia nonna. Finiti sembravano i tempi in cui
mi accoglieva festosamente con baci e coccole; da quando indossavo
la minigonna, ogni volta che l'andavo a trovare, mi squadrava dalla
testa ai piedi, contraendo la fronte come se fosse in preda ad una
forte emicrania ed arricciando le labbra come se avesse un pezzo
di limone in bocca. Inutile, la minigonna era troppo per lei! Sicché,
per evitarle ulteriori sconvolgimenti, decisi di adottare un bellissimo
compromesso: l'andai a trovare indossando i pantaloni. "Kem
sev'ai?!" (come un uomo?!) fu la sua immediata e poco incoraggiante
reazione.
Un'altra battaglia, sospirai tra me e me, ma questa è un'altra
storia
Elvira Romano
(marzo 2006)
27 Marzo 2006