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TIE', TIE', C'E' BOTTIGLIE?

Ve lo ricordate l'ometto che passava gridando "Tie', tie'"?

Al turista di passaggio quella strana sillaba poteva suonare, forse, come una parola in lingua locale, ma per noi del posto aveva un significato ben preciso. "Tie'" era la forma abbreviata, anzi sincopata di "bottiglie" e la persona in questione, in genere di mezza età e con una vaga conoscenza dell'italiano, andava in giro con delle sporte capaci per acquistare bottiglie e contenitori usati di vetro. Passando di strada in strada, di quartiere in quartiere, lanciava il suo grido inconfondibile "Tie'", poi, se vedeva qualche signora sulla soglia di casa, avvicinandosi e abbassando considerevolmente la voce, chiedeva: "C'e' bottiglie, signorà, atì signorà, c'è bottiglie?". Alcune volte aveva successo. Si vedevano, allora, le donne di servizio indaffarate a raccogliere vari recipienti di vetro dai ripostigli e poi tutte intente a confabulare, mostrando vasetti vuoti di marmellata e bottiglie di varia misura e colore. Non tutto, però, veniva acquistato indiscriminatamente, anzi, c'erano determinate regole da rispettare, prima fra tutte la pulizia dei recipienti, poi non dovevano essere sbocconcellati, altrimenti il deprezzamento era considerevole e, se non ricordo male, c'era anche una classifica basata sul colore del vetro, non so bene se valesse di più quello bianco trasparente o quello colorato.

Pochi davvero erano gli spiccioli che la donna poteva realizzare dalla vendita, ma sembrava ci fosse un gusto particolare nelle due parti a dilungarsi in un'animata discussione, facendone quasi un punto d'onore, non importa se poi il sugo stava bruciando in cucina. Guardandoli da lontano era comico vedere tutto quel gesticolare delle mani, i segni di diniego della testa, il gesto accennato di brusco commiato, quando la discussione raggiungeva un punto di stallo; in effetti, qualche rara volta, finiva veramente in disaccordo e il cancello veniva sbattuto in malo modo dalla donna di servizio con una serie di brontolii in cui prevaleva la parola "leva", cioè imbroglione.

Il più delle volte, però, la cessione del vetrame si concludeva con buona pace delle parti e soprattutto della donna che intascando i pochi spiccioli aveva l'aria di chi avesse appena vinto un terno al lotto. E l'ometto riprendeva il suo cammino al grido di "Tie'" che continuava a risuonare per un po', ora più vicino, ora più lontano, a seconda di come soffiava il vento.

Elvira Romano
(giugno 2005)

15 Giugno 2005

* * * *

Gentile Elvira Romano,
Mi permette di aggiungere qualcosa al suo interessante ricordo " tiè tiè"?
Il compratore di bottiglie non aveva solo per clienti le donne di servizio, ma anche noi ragazzi.
Parlo dei miei tempi: metà anni '40. Le mancette non erano di moda, oppure erano veramente esigue, e così bisognava trovare un sistema per soddisfare alcune nostre esigenze di base: acquisto, sempre dagli ambulanti, di beni voluttuari (fichi d'india e chichingioli) e di materie prime (noci di palma dum per costruire le trottole).
Le contrattazioni erano sempre molto lunghe, tormentate, e combattute fino all'ultimo sangue per un maggior ricavo di qualche "mezza tariffa" (5 centesimi di Scellino East Africa).

Massaua, boschetto di palme dum e le loro caratteristiche noci in due foto recenti scattate da Sergio Mauri. Al centro, la trottola...

Una più grande disponibilità di "capitale" faceva la differenza soprattutto per la scelta di una migliore noce di palma dum. Una buona trottola rappresentava un ragguardevole status symbol, e la sua costruzione richiedeva pazienza e perizia. Ricordo ancora il profumo dolciastro della scorza fibrosa che veniva aperta a colpi di sasso, l'emozione per l'estrazione della noce, il lento lavoro di abrasione per correggere le asimmetrie, l'esecuzione del foro per procurare il fischio, e le mille discussioni su come piegare il chiodo. Anche Marisa Baratti ha vissuto queste emozioni, e ce le ha magistralmente ricordate in un recente articolo su " Mai Taclì".
E' passato tanto tempo, e ci rimane solo la nostalgia di tanti irrepetibili eventi.
Un abbraccio a tutte le Chichingiole e Chichingioli.
Angelo Selvi
(28/06/2005)



HOIE', HOIE' ...

Settembre. La terra, riarsa da troppo tempo, ha avidamente assorbito la pioggia, non importa se elargita a gocce o a scrosci ... e la metamorfosi è immediata. Ovunque, i pendii aridi ed i poggi polverosi si coprono di tenera verzura e si adornano di miriadi di fiori di un bel giallo dorato che a distanza sembrano minuscoli soli occhieggianti che fanno compagnia alle messi mature nei campi.
Nessuno può sottrarsi alla gioia di quello spettacolo inconsueto: il fruscio delle spighe di grano, di orzo, di tenero taf e di solido mescelà che si piegano grevi, ondeggiando al vento e preannunciano un raccolto abbondante. Non è necessario essere contadini per condividere la gioia di quei momenti solenni, uguali sotto tutti i cieli, perché è uguale la preghiera di ringraziamento che si innalza silenziosa alla fine della mietitura, a conclusione di una stagione di lavoro duro e faticoso, punteggiata di speranze (poche) e di incertezze (tante).
L'aria è tersa, tutto sembra più pulito, più lindo. Il sole risplende, ma i suoi raggi sono più mitigati, più gentili. La polvere stessa è sparita, lavata dalle piogge recenti. Si avviano i preparativi per celebrare degnamente l'entrata del raccolto con la festa di Kudus Yohannes che segna l'inizio del nuovo anno e più in là la festa del Meskel con il damerà che chiuderà i festeggiamenti del mese di Meskerem.

 
Ringraziamo Marco Lai per queste stupende foto scattate ad Hagaz nel 2005

Fin dalla fine di agosto, dal bassopiano incominciano ad arrivare in città, a gruppi o singolarmente, intraprendenti mercanti per vendere i tronchi e i rami secchi di euforbia necessari per la fiaccolata del hoiè, hoiè. Donne, uomini e bambini si accalcano intorno a loro per acquistare uno o più rami. L'acquirente oculato ignora il venditore che propone un tronco anziché un altro, perché inevitabilmente nel fascio ce ne sono parecchi inumiditi dalle piogge e con quelli il risultato garantito è una marea di fumo, buono per tenere lontane le zanzare, ma anche i festeggianti.
Il nostro acquirente di fiducia, che era mia nonna, sembrava avere l'occhio e soprattutto il tatto infallibili, perché prendendo tra le mani un ramo di euforbia, lo osservava, lo tastava da cima a fondo, guardava l'interno, tentava di penetrare la cavità con le dita per capire quanta umidità vi fosse intrappolata. Il venditore si offriva prontamente di svuotare l'interno con l'ausilio di un bastone perché a suo dire il buon fuoco sarebbe stato assicurato. Qui però i pareri erano discordanti. Il ramo svuotato si consumava troppo in fretta, quello non svuotato, purché asciutto, durava invece più a lungo e la fiamma crepitante con la sua cascata di scintille era sicuramente più allettante.
Con i tronchi di euforbia, gelosamente custoditi in magazzino, lontano dalla benché minima traccia di umidità, non c'era che da attendere ansiosamente l'evento. Nel tardo pomeriggio del giorno fatidico mi appostavo per tempo di vedetta in terrazza e ne scendevo solo quando vedevo a distanza i primi fuochi. Il momento era finalmente arrivato!
Quasi come fuochi fatui, dapprima, e poi sempre più numerosi, nei quartieri si accendevano all'imbrunire, prima ancora dei pallidi lampioni stradali (laddove c'erano), innumerevoli falò, alcuni più grandi, altri modesti, alcuni fumanti, altri gagliardamente scoppiettanti che strappavano risate e allegri commenti a grandi e piccini.
Per accendere il proprio tronco bastava affacciarsi sul marciapiede e accostarlo al fuoco dei vicini; l'euforbia si riscaldava lentamente con sottili fili di fumo che uscivano lateralmente finché finalmente compariva la prima timida fiammella, salutata da risate e parole di approvazione dei presenti. Quale modo migliore per cementare i rapporti di buon vicinato? Quando il ramo di euforbia si era bene acceso si rientrava in cortile per accostarlo agli altri rami che vi erano stati accatastati e presto il piccolo falò incominciava a bruciare vivacemente. Era il momento per tutti i membri della famiglia, grandi e piccini, ospiti e parenti, di saltare il fuoco tre volte con frasi bene auguranti in cui quella prevalente era: "Speriamo nel prossimo anno, di questi tempi, in salute e felicità!" Nulla impediva, soprattutto ai bambini, di saltare il fuoco più volte e ricordo che anche i grandi diventavano un po' come bambini, almeno era quanto, tra il serio ed il faceto, diceva mia nonna a mia madre, quando la vedeva, appaiata a me, saltellare il fuoco a più riprese.
Poi, mia nonna brandendo il ramo più fiammeggiante, iniziava il giro delle stanze di casa, seguita a ruota da me, che, improvvisatami "cadetto del corpo di pompieri casalinghi", prontamente estinguevo qualsiasi scintilla di misura consistente, che staccandosi dal ramo di euforbia, si attardava a bruciare sul pavimento. La nonna mi spiegava, tra una preghiera e l'altra, peregrinando di stanza in stanza, che il fuoco serviva a purificare la casa in modo che tutti i membri della famiglia potessero godere di benessere e buona fortuna.
Iniziava, poi, quella parte indimenticabile della serata, già di per sé straordinaria, allorché ci sedevamo tutti attorno al fuoco crepitante e la nonna iniziava i suoi racconti di vicende vissute, intercalate da indovinelli e barzellette. Tuttavia i suoi racconti venivano spesso interrotti dall'insistente bussare dei ragazzi che volevano farci saltare il loro fuoco e che davanti al portone di casa, in gruppi più o meno folti, cantavano in coro, accompagnandosi con il battito ritmico dei tronchi di euforbia che mandavano scintille ovunque.
Non potevamo sottrarci a quell'invito. Associarsi ai loro canti era semplice, bastava battere le mani seguendone la cadenza. A volte, soprattutto se i cantori erano giovani, i loro canti assumevano un tono goliardico, con rime un po' troppo audaci a parere degli anziani i cui cipigli la dicevano lunga, mentre le ragazzine e le giovani donne, nascondendo i volti dietro le fute, intercalavano i loro "uai!" semi-scandalizzati, alle risatine in sordina.

Raccogliersi intorno al fuoco che bruciava aveva un fascino particolare, dal sapore ancestrale. Il fuoco creava un'atmosfera di intimità calda, di unità, di armonia. Dai giochi di ombre e luci create dal fuoco, a seconda del movimento della fiamma e della sua intensità, emergevano volti cari a me noti ai quali sorridevo e gli occhi e i denti lampeggiavano vivaci e allegri, noncuranti del domani, immersi nel benessere presente, volutamente immemori della fugacità di quei momenti felici. Le risate si srotolavano come allegre matasse e accompagnavano quelle fiaccolate che, con la loro calda luce dorata, rendevano accoglienti anche le soglie delle catapecchie più cadenti.
Soddisfatti di vedere la loro performance premiata con una manciata di monete i cantori si allontanavano in fretta, gareggiando con altri gruppi, in una corsa contro il tempo, per coprire il maggior numero di case prima che, con l'avanzare rapido della notte, scemasse l'entusiasmo della gente e con esso le mance.

I canti, le voci eccitate, le allegre fiaccole in movimento, i rulli lontani dei tamburi, i falò caldi nei cortili, col sottofondo del belato rassegnato delle pecore che domani dovranno essere sacrificate per solennizzare degnamente l'anno nuovo, sotto la volta stupendamente stellata, il domani viene messo da parte, quel che conta è il presente. Ora è tempo di cantare.

Dunque, amiche e amici del Chichingiolo, perché indugiare? Cantiamo tutti insieme, in coro, in nome dell'amicizia e dell'armonia che ci unisce e che affonda le sue radici in quella terra lontana che ci ha dato i natali, avanti tutti insieme:

Hoiè, Hoiè, ho!
Hoienà, hoiè, ho!
Hoie zei belè, ho!
Kavana ifelè, ho!


E possa la fiaccola del nostro entusiasmo non estinguersi mai.

Elvira Romano
Settembre 2005

9 Settembre 2005



ELECTRIC BIRDS
di Daniela Toti

Uscendo dall’ufficio guardo oltre il recinto, dove da ormai molti giorni i cavi della luce li ospitavano.
Rimango malissimo: non ci sono più, sono partiti... it’s time for birds to fly to southern skies, direbbe Stevie.

Mi fermo e ascolto. Il cinguettio che le altre sere riempiva l’aria oggi è appena percettibile. Guardo meglio e li vedo: sono rimasti proprio ultimi, ritardatari, disorientati, tentano un delta a tre... riusciranno a raggiungere gli altri e sfuggire la trappola del freddo?

Gli “electric birds”. Un giorno in West Africa chiesi a Saysay, l’autista, che tipo di uccellini fossero quelli che, numerosi, stavano sui fili della luce. Ci pensò una frazione di secondo e quindi, con un sorriso a 32 denti mi disse sicuro: “Electric birds, Missy!”.

Mi mancano. Da quando li ho visti, ordinati uno accanto all’altro sui cavi, ogni sera godevo della loro musica che mi consentiva, con una remota stretta al cuore, di viaggiare con la mente lontano nel tempo, più a sud...

Ero a Cheren, quando si usciva di casa poco prima del tramonto, dopo la pennicchella pomeridiana, rifugio dal caldo canicolare, per fare quattro passi prima dell’aperitivo. E con la nonna, per manina, arrivavamo fino alla piazzetta davanti al Commissariato. Lí era una meraviglia, il cinguettio direi assordante se non fosse stato così gioioso, e il frullio delle ali di tutte quelle rondini che si preparavano per la notte, vicine vicine, in fila sui cavi elettrici.

Chiedevo alla nonna di fermarsi: “Le guardiamo un po’?” e rimanevamo ad osservarle fino a quando anche l’ultima aveva trovato il suo posto e finalmente, tutte insieme, quasi obbedendo ad un misterioso codice, tacevano. Il silenzio che seguiva, paragonato al precedente vocio, era quasi irreale. Allora la nonna mi diceva: “Tra poco metteranno il capino sotto l’ala e faranno la nanna, torniamo a casa” e il ritorno era accompagnato dal ciangottio della mia vocetta che sottoponeva alla nonna mille domande sulle amiche rondini. E la nonna raccontava dei loro viaggi alla ricerca del sole, del caldo, dove potevano trovare il cibo fatto di semini ed insetti, fili d'erba e bacche e al loro ritorno in Europa per festeggiare la Santa Pasqua, e i peschi in fiore, e la natura che si risvegliava con il cinguettio del loro ritorno.

Rimango lí, vicino alla macchina, con le chiavi in mano ed il naso all'insú, a rimirar, tra le rosastre nubi, gli ultimi uccelli neri, com'esuli pensieri, nel vespero migrar ...

21 Ottobre 2005



NATALE 2005

Siamo già alla fine dell'anno. Un'altra volta?! E quest'anno cosa confezioniamo, ci siamo chiesti a ridosso delle feste? Signora Fortuna ci ha aiutati. Una chiacchierata con Alce, un cioccolatino, una battuta ed ecco che è saltata fuori l'idea di chiedere al Nostro se avesse mai scritto un pezzo per la ricorrenza del 25 dicembre. La risposta è stata corretta. Eccolo quel pezzo, sottratto, con il consenso dell'Autore (ma non del signordirettore Marcello Melani), dalle pagine del Mai Taclì dove apparve sul numero 4, anno V, luglio-agosto 1980, a pagina 6, e lo offriamo a voi incoraggiati dalla speranza di rimanere impuniti. Nel frattempo informiamo i nostri lettori che anche quest'anno è Natale. Buone feste!
il C.



Nel pezzo che propongo più sotto, scritto laggiù, vi è tanta nostalgia per le cose di quassù. E rileggendolo mi sono domandato che cos'è la nostalgia, mi sono chiesto perché io, quand'ero là ne provavo per i miei luoghi d'origine ed ora che sono qui ne sento tanta per quei luoghi che mi hanno ospitato per oltre quarant'anni.
E' destino che si abbia sempre nostalgia per qualcosa? Forse è proprio così. Ho provato anche a calcolare se, di nostalgia, ne avevo più là per qui o ne ho Maggiormente ora. La nostalgia tramutata in numeri ha fatto impazzire le pile della mia calcolatrice tascabile (che da ragioniere apocrifo porto sempre con me). Naturalmente ho rinunciato. Poi adagio adagio, mi sono reso conto. E senza l'intenzione di dissacrare sentimenti o sensazioni, sia miei che tantomeno degli altri, ho portato la nostalgia a livello di rimpianto e ancora piano piano da rimpianto a bellissimi indimenticabili ricordi. Ed ora va meglio.
Poiché il pezzo, intitolato "La Messa di mezzanotte" apparve su una rivista di Parma, debbo qualche spiegazione. Ai lettori del Chichingiolo è ovvio che non dirò che cosa sono e dove si trovano Gherar o Gurgussum, ma dirò, invece, che "l'amico Aldo Curti" era il Direttore della rivista parmigiana, che l'Oratorio dei Rossi e la Steccata sono due celebri chiese di Parma e che quando dico "Salsa" intendo Salsomaggiore.
Fine delle spiegazione.

LA MESSA DI MEZZANOTTE

Questo del 1971 è il mio trentacinquesimo Natale africano. E qualcuno mi ha chiesto, per una pubblicazione prettamente parmigiana qual è "Parma bell'arma" un paio di cartelle tintinnanti come un abete inghirlandato, e io incoscientemente ho detto di sì all'amico Aldo Curti.
D'accordo, due cartelle natalizie, ma scritte quaggiù [Asmara, n.d.C] e battenti bandiera ducale.
I ninnoli, le sfere colorate, i festoni argentei, i fiocchi di bambagia li dispongo in bell'ordine sull'albero di pepe che sta dietro casa. Consentitemi la licenza. E poi scendo dai 2400 metri dell'Asmara alle sponde del Mar Rosso.
E' stagione balneare a Massaua e tutti ne vogliono approfittare. Non fa caldo come a luglio o ad agosto ed è appunto per questo che si scende al mare, un mare tiepido in cui ci si può bagnare da mattina a sera ed anche, volendo, di notte. Ma di notte si preferisce uscire in barca con la lampara ad infilzare guizzanti, luccicanti aguglie.
E' Natale e questa notte i remi del barcaiolo non frusceranno con la solita cadenza nell'acqua tiepida attorno all'Isola Verde, né la lampara a petrolio si illuminerà a danno delle aguglie che cuciranno il mare senza essere sollecitate dalla nostra fiocina.
Questa notte anche qui nella calda Perla del Mar Rosso avremo la nostra messa di mezzanotte.
La chiesa sorge oltre la diga, a Gherar, è una bella chiesa, sfavillante di luci, con il suo Presepe amorevolmente allestito dai frati cappuccini.
I graticci di legno delle finestre della chiesa di Gherar sono sollevati, le porte spalancate, otto ventilatori accompagnano la celebrazione con il loro ronzio incessante, diradano il fumo dell'incenso che altrimenti stagnerebbe a mezz'aria, fanno da controcanto all'organo che diffonde la stessa musica sacra diffusa da tutti gli organi di tutte le chiese di tutto il mondo.
Ripenso alla folla di fedeli raccolta nelle chiese della mia città, folla tutta chiusa nei suoi indumenti invernali e mi guardo ancora attorno: gli uomini in camiciola e pantaloncini, le donne in leggeri abiti di cotone a coprire il sottostante costume da bagno, qualche bimbo insofferente è a torso nudo. Tutti sono in sandali: qualcuno si è messo le calze, una raffinatezza per la ricorrenza.
Il celebrante, un francescano eritreo dalla barbetta nera come l'inchiostro, una barbetta aguzza, aggressiva, che dal mento si rivolta al naso, suda sotto ai paramenti che sono identici a quelli che indossa chi celebra all'Oratorio dei Rossi, alla Steccata, in Duomo.
Si esce su un sagrato di sabbia, ci si scambia gli auguri, ci si invia ad annaffiare una fetta di panettone con una coppa di spumante, si continua a sudare per l'umidità che è nell'aria.
Ci mancano un po' di freddo e un po' di neve; qualcuno ci telefona dall'Asmara e ci dice ch'era meglio restare su, sarebbe stato più Natale. In altopiano v'è più atmosfera, cioè v' è la nebbia, una nebbia che ricorda i nostri luoghi e a Natale un po' d'atmosfera è necessaria, ricordare è indispensabile.
Ricomincio a pensare e a rispondere senza capire e senza nesso o addirittura a non rispondere a chi mi parla.
Cosi mi ritrovo solo lungo il rettifilo fra i bacini salini, solo sulla diga, solo a guardare, senza vederlo, questo cielo stracarico di stelle.
Rivedo la cripta di San Vitale a Salso dove, alla mezzanotte dei pochissimi Natali vissuti in patria, mi bardavo da chierichetto e pativo d'invidia perché non volevano mai affidarmi il turibolo con l'incenso acceso: una volta avevo maldestramente dato fuoco ad un tappeto innanzi all'altare
Mi chiamano da lontano, mi scuoto, perdo di vista la Croce del Sud e rimetto occhi e piedi a terra.
Si va tutti alla spiaggia di Gurgussum, faremo il bagno. Poi Ramadan, un mussulmano che ha organizzato un locale proprio in riva la mare dove servono dell'ottimo pesce, si avvicina e aspetta.
Castagne e vino nuovo - gli dico scherzando. Ramadan non capisce e si allontana scuotendo il capo. Ritornerà poco dopo con una invitante frittura di gamberi e seppie. Poi farà seguire panettone e spumante perché Ramadan, d'accordo, non sa di castagne e vino appena spillato, ma sa che per noi oggi è festa.
Guardo Ilaria, la mia ultimogenita, nata da queste parti otto anni fa. Beve Coca-Cola, la snaturata.

Cesare Alfieri

* * * *


NATALE 2005

Mentre
il frastuono
di guerre non dichiarate
avvolge la terra,
e la notte
sembra non finire;
mentre
si semina odio
in cambio
di vendetta,
e la notte
sembra non finire;
mentre
si esportano
surrogati di democrazia
in cambio
di autentica merce,
e la notte
sembra non finire;
mentre
si innalzano muri
e si abbattono vite,

e la notte
sembra non finire;
Dio, mai stanco di noi,
osa farsi varco
tra le macerie
della pace sconfitta,
e scende
nei meandri intricati
del cuore di questa umanità
e offre se stesso
in cambio di nulla.
E mentre l'oscurità
sembra inghiottire
la terra,
la voce dei popoli
si leva alta
nella notte.
Un chiarore
annuncia l'aurora.
E' di nuovo Natale!

(Elisa Kidanè)


18 Dicembre 2005



A SPASSO (PER IL NATALE) CON D.
 

Pensavo di addobbare per voi e con voi anche il terzo alberello, per il terzo Natale che passiamo insieme. Poi mi sono lasciata prendere dai ricordi, che sono il vero collante che ci unisce.
E come l'anno passato Lord Kikki ci ha portato, sottobraccio, in una meravigliosa passeggiata tra le stradine meno note ma più vere di Asmara in una mattina di Natale di qualche anno fa, io vorrei invece ripercorrere con voi i miei ricordi, dalla fredda serata di un'antivigilia di quegli stessi anni, qualcuno più qualcuno meno, al mattino di Natale.

Ho appena partecipato alla Novena alla Chiesa di Gaggiret: "Regem venturum dominum, venite adoremus" ... (non li ho più sentiti quei canti che mi preparavano l'anima alla celebrazione del Natale. "Venite, adoriamo il Signore che sta per arrivare". Questa, che è la più bella delle feste e che stiamo inesorabilmente logorando con le corse assurde, con la voglia di fare sempre più di quello che si riesce, con i regali a tutti i costi, si sta trasformando da festa dell'anima a celebrazione sempre più pagana, ... e la Novena la ricordano ormai in pochi.)
Con l'orgoglio proprio di una diciottenne fresca di agognata patente, parcheggio l'Opel Kadett Coupè rossa in Centro davanti alla Casa del Vetro. Il masticaio mi chiama per nome (conosce tutti lui!) e mi rassicura che terrà un occhio sulla macchina. Gli sorrido annuendo perché è, come sempre, di una simpatica invadenza. So che la "vasca" sarà particolarmente affollata stasera, con il rientro di tanti amici che sono all'estero chi per studio e chi per lavoro.
Il Campanile crea la giusta atmosfera diffondendo la musica natalizia ed io sono al settimo cielo perché adoro il Natale, i Christmas Carols e sono più che felice di rivedere chi è tornato alla base per trascorrere le feste in famiglia. Stasera finalmente comprerò quelle bellissime scarpe che da più di un mese mi ammiccano dalla vetrina di Cipollini. Sono eleganti, chanel color panna, una vera favola che calzerò il giorno di Natale.Uscendo dal negozio mi fermo a salutare il gruppo di amici, si chiacchiera, si ride, fa freddo e così stringo il pacco delle mie chanel-color-panna che in questo momento però non sono più la cosa più importante. "Si va al Cinema stasera?" "Mi passate a prendere voi?" "Verso le nove" "A dopo".
Torno a casa per la cena, canticchiando "Rudolph the red nosed reindeer, had a very shiny nose" …
Domani si fa l'albero, proprio come ce l'ha spiegato Elvira, costruendolo con vari rami profumati di resina, dopo aver fatto una gita a Valle Gnecchi per prendere il muschio per il Presepe. Lo stacchiamo dalla base del muro della diga, dove c'è qualche infiltrazione che ne crea il giusto habitat, muniti di coltellino e adagiandolo con attenzione sui vassoi che abbiamo portato: È un piccolo festoso rituale della vigilia che appartiene a noi tre con il nostro papà, strappato per una volta al suo lavoro d'ufficio. La sera, dopo cena, i parenti sono tutti invitati a casa per la tombola.
Mamma preparerà i suoi tradizionali ricchi vassoi della vigilia. Sono delle bellezze dolciarie: alcuni con pezzi di torrone, panforte, datteri farciti, fichi e prugne secche disposti in cerchi concentrici e altri con fette di panettone e pandoro, alternate. Papà si sarà munito di tantissimi spicci, "carrarmati", i famosi pezzi da 25 centesimi, e come fa tutti gli anni, ne offrirà la metà a chi vuol far società con lui. "Io, io, io!" e finalmente la tombola, con i bottoni-senza-buchi che qualcuno ha recuperato dal bottonificio di De Rossi a Cheren chissà quanti anni fa, che sono della misura giusta per coprire i numeri delle cartelle.
Chi tiene il banco? "Sessantasette, sei-sette, quarantatre, quantro-tre, undici" … "chi ha detto ambo? E' uscito il sedici? e il venti?". Dopo la tombola, si va, come tutti gli anni, alla Messa di Mezzanotte celebrata nella Chiesa degli Eroi, perché papà sostiene che i modi spicci di Padre Crispino assicureranno una giusta durata alla Messa Natalizia. Speriamo che ci sia la nebbia, che crea quell'atmosfera così particolare, da vigilia...
Fuori della Chiesa il gioioso rito degli auguri e poi via verso casa dove, sotto l'albero, a fianco del Presepe, si rinnova la magia di tutti gli anni. Quello che troveremo scartando i pacchi colorati risponderà come sempre all'aspettativa. Chissà se abbiamo mai realizzato appieno quale infanzia e adolescenza privilegiata ci sia stata regalata.
Al risveglio, il profumo dell'albero pervade la casa. E' l'odore di Natale. Da Kagnew Station le note di Bing Crosby ci donano il feeling necessario, facendoci sognare il Bianco Natale, che troveremo anni dopo in Italia ma che oggi è solo un sogno in cartolina, mentre il cuore ha un battito che, chissà perché, assomiglia stranamente al tintinnio di Jingle Bells …Good Morning, Asmara, Buon Natale!

Daniela Toti

24 Dicembre 2005


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