Colori,
profumi e merletti
Vacanza!
Parola magica per tutti gli studenti, sinonimo di sollievo e liberazione
dalla schiavitù delle lezioni da imparare, dalle palpitazioni
per le interrogazioni ed i compiti in classe. A cuor leggero si
dà l'addio, anche se solo per tre mesi, alle levatacce
antelucane, al caffelatte sempre troppo caldo, ingollato in fretta,
scottandosi la lingua, con un occhio sulle lancette dell'orologio.
I testi scolastici, perlomeno quelli ancora usabili, finiscono
relegati in fondo al cassetto della scrivania, mentre la scuola,
con annessi e connessi, viene confinata nel retrobottega più
oscuro della mente. Quel che conta sono soltanto le vacanze, le
tanto sospirate vacanze, che, come un faro in mezzo alla tempesta,
hanno illuminato gli ultimi, tumultuosi giorni scolastici. Credo
che non ci sia nulla di così universale come l'euforia
per le vacanze ad accomunare i giovani sotto tutti i cieli.
Il
modo di trascorrere le vacanze ad Asmara, tuttavia, differiva
sostanzialmente da quello dei coetanei residenti in Italia. Intanto
sull'altopiano, in concomitanza con le vacanze, iniziava la stagione
delle grandi piogge; e mentre riviste e rotocalchi italiani e
perfino le canzonette estive decantavano l'estate al mare, gli
ombrelloni, il solleone e la tintarella, da noi il mare era praticamente
inaccessibile. A Massaua, infatti, il termometro superava i 45
gradi all'ombra e gli stessi massauini sciamavano verso l'altopiano
in cerca di refrigerio. Che restava allora? Ad Embatcalla la pensione
delle suore per anziani, convalescenti e mamme con bambini piccoli.
Per gli altri, per tutti quelli cioè che non potevano permettersi
la capatina in Italia o altrove, rimaneva Asmara.
La
vacanza rappresentava per me l'occasione felice per giocare spensieratamente
con le mie numerose cuginette. I giochi erano vari, dai classici
salto con la corda, acchiapparello e nascondino, all'indimenticabile
gioco del "handai". Questo consisteva in cinque sassolini,
più o meno tondeggianti, della grandezza di una nocciola
che si lanciavano su una superficie liscia - noi ci accovacciavamo
in giardino, sul pianerottolo di marmo dell'entrata. Il segreto
stava nel non buttarli troppo distanti gli uni dagli altri, perché
questo avrebbe reso più difficoltoso il gioco, compromettendone
la riuscita. Si iniziava lanciando un sassolino in alto e velocemente
bisognava raccogliere, uno alla volta, quelli in terra, cercando
di fare atterrare quello in aria sul palmo semiaperto della stessa
mano; nella seconda fase bisognava raccogliere i sassi a due alla
volta, manovra che diventava più complicata se un mal calcolato
tiro iniziale li aveva distanziati troppo fra loro; l'ultima fase,
la più difficile, consisteva nel raccogliere tutti i sassolini
con un unico movimento fluido e lesto. Naturalmente perdeva chi
faceva cadere a terra il sasso lanciato in aria. Gioco umile e
semplice, che però richiedeva destrezza e strategia nel
valutare le distanze. Quante prove e riprove e nocche scorticate
prima di riuscire a stare alla pari o quasi con le mie più
esperte cugine!
Invece Stifanos, l'unico cugino maschio più vicino alla
mia età, mi aveva introdotto ad altri giochi, alcuni dei
quali poco femminili, ma, a mio parere, tutti ugualmente divertenti.
Uno era l'affascinante gioco della trottola. Chi non ricorda la
noce di palma dum? Ben pulita e lisciata, con un chiodo piantato
a mo' di perno su un'estremità attorno alla quale si arrotolava
una cordicella: con una torsione rapida del polso, la si tirava
in terra, la cordicella si srotolava e la piccola trottola girava
velocissima intorno al perno. Questo quando tutto andava bene.
Nel mio caso erano più le volte che rimanevo con la corda
in mano e con la trottola a pancia all'aria, quasi a deridere
la mia incompetenza. C'era, poi, il gioco con le biglie colorate,
di varia grandezza, uno dei miei preferiti, per non parlare del
mortaretto rudimentale che un giorno Stifanos portò con
sé e che serviva a far scoppiare la capocchia dei fiammiferi.
Quante scatole sottratte dalla cucina all'ignara donna di servizio!
Il rudimentale aggeggio fu successivamente sostituito da una piccola
pistola di latta più comoda, che si caricava con rotolini
di carta, dove minuscole ed equidistanti protuberanze tondeggianti,
contenenti polvere da sparo, avrebbero dovuto scoppiare al momento
in cui si tirava il grilletto, ma erano più le volte che
facevano cilecca.
Quell'anno
i miei genitori, allarmati da questa mia predilezione per giochi
"da maschiaccio" decisero di iscrivermi ad un corso
di ricamo, arte muliebre per eccellenza che, con il cucito e la
culinaria, avrebbero dovuto garantire la preparazione della donna
al ruolo di angelo del focolare domestico. Il corso veniva tenuto
dalle Suore Orsoline, in un locale annesso alla Chiesetta della
Madonna di Loreto, quella di Ghezzabanda, tanto per intenderci.
Mai denaro e tempo furono più sprecati! Non solo non avevo
alcuna predisposizione per il ricamo, ma credo di aver messo a
dura prova la pur inossidabile pazienza della povera Suor Elda,
nostra insegnante, e non a torto! Quella che doveva essere una
graziosa tovaglietta da tè, col passare dei giorni, malconcia
e stazzonata dal continuo fare e disfare dei punti scorretti,
assomigliava sempre di più ad uno strofinaccio superusato.
E dire che le ragazzine intorno a me sembravano tutte così
brave, ma per me punto quadro, punto pieno, punto croce erano
tutti
una croce! A quel primo tentativo ne seguì
un altro, l'anno successivo, ma senza migliore fortuna. I miei
punti restavano, ahimé!, sgraziati e sconnessi così
che i fatti, più che la parole, convinsero i miei genitori
a desistere. Ad onore del vero devo ammettere che, a fine corso,
quando tutti i lavori lavati, stirati ed inamidati, furono esposti
al pubblico, costituito per la maggior parte da madri, zie e nonne
orgogliose e da comari, curiose e onnipresenti, che affollavano
il locale per ammirare l'operato delle giovani ricamatrici, la
mia tovaglietta, per non so quale miracolo operato da Suor Elda,
o meglio dalla consistente quantità di amido usato nello
stirarla, dal suo angolino, seminascosta, non faceva poi troppa
brutta figura, almeno ai miei occhi.
Poi
fu la volta delle lezioni di cucina. Tutto iniziò quella
volta che, innocentemente, durante il pranzo, chiesi a mia madre
come si facesse il brodo. Allo sguardo sconsolato dei miei genitori
seguì la loro decisione inappellabile che mi vide nei giorni
seguenti, bardata di grembiule e con l'aria afflitta, affiancare
mia madre che impartì i primi rudimenti culinari alla sottoscritta
la quale avrebbe di gran lunga, e con meno fatica, preferito imparare
a memoria passaggi interi dell'Iliade o dell'Odissea, piuttosto
che apprendere i segreti per la riuscita di un buon ragù
o di un arrosto succulento.
L'arrivo
saltuario, nelle prime ore pomeridiane, della pioggia, anziché
annoiarmi, rappresentava un diversivo felice. Quando i bei nuvoloni
carichi di acqua, preceduti dal rombo del tuono, rotolavano da
lontano, invadendo l'orizzonte ed usurpando temporaneamente il
cielo del suo consueto azzurro smagliante, provavo una gioia profonda.
Dalla finestra della veranda ascoltavo, sulla lamiera del garage,
il ticchettio quasi timido delle prime gocce che presto diventava
uno scroscio assordante; osservavo i rivoli trasformarsi in consistenti
ruscelletti, che lavavano tutto, dissetando, finalmente, la terra
riarsa. Immediata era la metamorfosi, quasi miracolosa, della
natura in festa: da un giorno all'altro, nei campi arati, dai
solchi profondi, spuntavano i primi teneri germogli, l'erba rigogliosa
vestiva a nuovo pendii e fossati e i fiori di campo aggiungevano
ovunque un'allegra nota di colore; ricordo, in particolare, le
magnifiche distese a perdita d'occhio delle cosmee.
I
pomeriggi piovosi erano ideali per la lettura. Divoravo con passione
tutti i romanzi di Salgari, seguivo con ansia le scorribande del
Corsaro Rosso, di quello Verde e la vendetta di quello Nero; trepidavo
per i mille agguati mortali tesi al prode Sandokan ed ai suoi
fedeli nella giungla lussureggiante e nei mari caldi della Malesia.
Un altro autore, anzi autrice, di tutt'altro stampo e stile, ma
da me ugualmente amata, era Louise M. Alcott con tutta la serie
delle "Piccole donne". Ai romanzi più romantici
di Delly e simili, sarei approdata più avanti, nei primi
anni delle magistrali.
Un
altro bel ricordo legato all'estate è quello delle scorribande
in bicicletta con le compagne delle medie che abitavano vicino.
Il momento più eccitante era provare l'ebbrezza di volare
giù, senza tenere il manubrio, per la discesa ripida di
Ghezzabanda, quella del viale Marconi dove abitavo e dove c'era
il baretto. Beata incoscienza! Non voglio neanche pensare a quel
che poteva accadere se la ruota, incappando in ghiaietta o sassolini,
avesse subito anche il più lieve scarto
Ma
l'avventura per eccellenza era accompagnare la nonna al mercato
per l'acquisto del kemem berberé, le spezie che servivano
per condire il berberé. Non era facile ottenere il permesso
di papà: "troppa polvere", "troppe mosche",
"troppa confusione", tutto era "troppo" per
lui, ma anche per me l'evento era "troppo" allettante
per rinunciarvi passivamente. Così iniziava il mio assedio
con preghiere, suppliche, musi lunghi e poi, al minimo segnale
di cedimento, la promessa solenne di non toccare nulla e di stare
attaccata alla sottana della nonna. Finalmente si partiva ed io,
eccitata e felice, la mano nella mano ruvida e calda di mia nonna,
la bombardavo, strada facendo, di mille domande, alle quali rispondeva
sempre pacatamente e pazientemente. Al mercato il caleidoscopio
di profumi, colori e persone era tale che non ne avevo mai abbastanza.
Mi incantavano i colori, mi incuriosivano gli odori di tutte quelle
spezie; di alcune mi facevo ripetere i nomi in tigrino: kororima,
seseg, avosoda, adri e poi le accostavo al naso, schiacciandole
tra pollice e indice, per aspirarne il profumo così peculiare
e penetrante.
Intanto
i giorni passavano veloci e, dopo il ferragosto, sembravano scivolare
via troppo in fretta, finché all'improvviso giungeva settembre,
fine delle vacanze, addio dormite e scorribande. La malinconia
iniziale, però, non durava mai troppo a lungo; prevaleva
l'eccitazione di un altro anno dove tutto, tranne le compagne,
ma qualche volta anche quelle, era nuovo: aula, libri di testo,
insegnanti. La curiosità per le tante novità all'orizzonte
spumeggiava incontenibile, le aspettative apparivano rosee, con
il tipico ottimismo di quell'età che neanche le possibili
incognite riuscivano ad intaccare. Ed io, ispirata dagli eroi
salgariani, mi sentivo più che mai pronta ad affrontare
l'ennesima sfida.
Elvira Romano
agosto 2003