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Le mani nel cassetto del Chichingiolo
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Ferragosto ad Asmara era una giornata come le altre. Non ricordo negozi chiusi, serrande abbassate e cartelli con la data del rientro dalle ferie, strade vuote, dodici chilometri di coda per un tamponamento fra Nefasit e Embatcalla, pericolo incendi sul Bizen, gavettoni acqua e farina sulla spiaggia di Gurgusum o i fuochi d'artificio dalla punta del Ghedem. Ricordo che un anno, forse il 1977, proprio in quel giorno cominciò il Ramadam. C'erano le pioggie, le nebbie, le giornate freddine e noiose passate a studiare latino e amarico da portare a settembre. C'era Giuliano Gemma al cinema Roma, la corsa pazza in bicicletta giù per la montagna rossa dietro la Kagnew, le notti profonde passate ad ascoltare il coro dei ranocchi nelle pozze d'acqua del boschetto dove, a settembre, sarebbe apparsa una distesa di margherite rosa ... Era un altro ferragosto della nostra vita e Elvira, con la sua maestria, e qui per rammentarcelo.

Colori, profumi e merletti

Vacanza! Parola magica per tutti gli studenti, sinonimo di sollievo e liberazione dalla schiavitù delle lezioni da imparare, dalle palpitazioni per le interrogazioni ed i compiti in classe. A cuor leggero si dà l'addio, anche se solo per tre mesi, alle levatacce antelucane, al caffelatte sempre troppo caldo, ingollato in fretta, scottandosi la lingua, con un occhio sulle lancette dell'orologio. I testi scolastici, perlomeno quelli ancora usabili, finiscono relegati in fondo al cassetto della scrivania, mentre la scuola, con annessi e connessi, viene confinata nel retrobottega più oscuro della mente. Quel che conta sono soltanto le vacanze, le tanto sospirate vacanze, che, come un faro in mezzo alla tempesta, hanno illuminato gli ultimi, tumultuosi giorni scolastici. Credo che non ci sia nulla di così universale come l'euforia per le vacanze ad accomunare i giovani sotto tutti i cieli.

Il modo di trascorrere le vacanze ad Asmara, tuttavia, differiva sostanzialmente da quello dei coetanei residenti in Italia. Intanto sull'altopiano, in concomitanza con le vacanze, iniziava la stagione delle grandi piogge; e mentre riviste e rotocalchi italiani e perfino le canzonette estive decantavano l'estate al mare, gli ombrelloni, il solleone e la tintarella, da noi il mare era praticamente inaccessibile. A Massaua, infatti, il termometro superava i 45 gradi all'ombra e gli stessi massauini sciamavano verso l'altopiano in cerca di refrigerio. Che restava allora? Ad Embatcalla la pensione delle suore per anziani, convalescenti e mamme con bambini piccoli. Per gli altri, per tutti quelli cioè che non potevano permettersi la capatina in Italia o altrove, rimaneva Asmara.

La vacanza rappresentava per me l'occasione felice per giocare spensieratamente con le mie numerose cuginette. I giochi erano vari, dai classici salto con la corda, acchiapparello e nascondino, all'indimenticabile gioco del "handai". Questo consisteva in cinque sassolini, più o meno tondeggianti, della grandezza di una nocciola che si lanciavano su una superficie liscia - noi ci accovacciavamo in giardino, sul pianerottolo di marmo dell'entrata. Il segreto stava nel non buttarli troppo distanti gli uni dagli altri, perché questo avrebbe reso più difficoltoso il gioco, compromettendone la riuscita. Si iniziava lanciando un sassolino in alto e velocemente bisognava raccogliere, uno alla volta, quelli in terra, cercando di fare atterrare quello in aria sul palmo semiaperto della stessa mano; nella seconda fase bisognava raccogliere i sassi a due alla volta, manovra che diventava più complicata se un mal calcolato tiro iniziale li aveva distanziati troppo fra loro; l'ultima fase, la più difficile, consisteva nel raccogliere tutti i sassolini con un unico movimento fluido e lesto. Naturalmente perdeva chi faceva cadere a terra il sasso lanciato in aria. Gioco umile e semplice, che però richiedeva destrezza e strategia nel valutare le distanze. Quante prove e riprove e nocche scorticate prima di riuscire a stare alla pari o quasi con le mie più esperte cugine!
Invece Stifanos, l'unico cugino maschio più vicino alla mia età, mi aveva introdotto ad altri giochi, alcuni dei quali poco femminili, ma, a mio parere, tutti ugualmente divertenti. Uno era l'affascinante gioco della trottola. Chi non ricorda la noce di palma dum? Ben pulita e lisciata, con un chiodo piantato a mo' di perno su un'estremità attorno alla quale si arrotolava una cordicella: con una torsione rapida del polso, la si tirava in terra, la cordicella si srotolava e la piccola trottola girava velocissima intorno al perno. Questo quando tutto andava bene. Nel mio caso erano più le volte che rimanevo con la corda in mano e con la trottola a pancia all'aria, quasi a deridere la mia incompetenza. C'era, poi, il gioco con le biglie colorate, di varia grandezza, uno dei miei preferiti, per non parlare del mortaretto rudimentale che un giorno Stifanos portò con sé e che serviva a far scoppiare la capocchia dei fiammiferi. Quante scatole sottratte dalla cucina all'ignara donna di servizio! Il rudimentale aggeggio fu successivamente sostituito da una piccola pistola di latta più comoda, che si caricava con rotolini di carta, dove minuscole ed equidistanti protuberanze tondeggianti, contenenti polvere da sparo, avrebbero dovuto scoppiare al momento in cui si tirava il grilletto, ma erano più le volte che facevano cilecca.

Quell'anno i miei genitori, allarmati da questa mia predilezione per giochi "da maschiaccio" decisero di iscrivermi ad un corso di ricamo, arte muliebre per eccellenza che, con il cucito e la culinaria, avrebbero dovuto garantire la preparazione della donna al ruolo di angelo del focolare domestico. Il corso veniva tenuto dalle Suore Orsoline, in un locale annesso alla Chiesetta della Madonna di Loreto, quella di Ghezzabanda, tanto per intenderci. Mai denaro e tempo furono più sprecati! Non solo non avevo alcuna predisposizione per il ricamo, ma credo di aver messo a dura prova la pur inossidabile pazienza della povera Suor Elda, nostra insegnante, e non a torto! Quella che doveva essere una graziosa tovaglietta da tè, col passare dei giorni, malconcia e stazzonata dal continuo fare e disfare dei punti scorretti, assomigliava sempre di più ad uno strofinaccio superusato. E dire che le ragazzine intorno a me sembravano tutte così brave, ma per me punto quadro, punto pieno, punto croce erano tutti …una croce! A quel primo tentativo ne seguì un altro, l'anno successivo, ma senza migliore fortuna. I miei punti restavano, ahimé!, sgraziati e sconnessi così che i fatti, più che la parole, convinsero i miei genitori a desistere. Ad onore del vero devo ammettere che, a fine corso, quando tutti i lavori lavati, stirati ed inamidati, furono esposti al pubblico, costituito per la maggior parte da madri, zie e nonne orgogliose e da comari, curiose e onnipresenti, che affollavano il locale per ammirare l'operato delle giovani ricamatrici, la mia tovaglietta, per non so quale miracolo operato da Suor Elda, o meglio dalla consistente quantità di amido usato nello stirarla, dal suo angolino, seminascosta, non faceva poi troppa brutta figura, almeno ai miei occhi.

Poi fu la volta delle lezioni di cucina. Tutto iniziò quella volta che, innocentemente, durante il pranzo, chiesi a mia madre come si facesse il brodo. Allo sguardo sconsolato dei miei genitori seguì la loro decisione inappellabile che mi vide nei giorni seguenti, bardata di grembiule e con l'aria afflitta, affiancare mia madre che impartì i primi rudimenti culinari alla sottoscritta la quale avrebbe di gran lunga, e con meno fatica, preferito imparare a memoria passaggi interi dell'Iliade o dell'Odissea, piuttosto che apprendere i segreti per la riuscita di un buon ragù o di un arrosto succulento.

L'arrivo saltuario, nelle prime ore pomeridiane, della pioggia, anziché annoiarmi, rappresentava un diversivo felice. Quando i bei nuvoloni carichi di acqua, preceduti dal rombo del tuono, rotolavano da lontano, invadendo l'orizzonte ed usurpando temporaneamente il cielo del suo consueto azzurro smagliante, provavo una gioia profonda. Dalla finestra della veranda ascoltavo, sulla lamiera del garage, il ticchettio quasi timido delle prime gocce che presto diventava uno scroscio assordante; osservavo i rivoli trasformarsi in consistenti ruscelletti, che lavavano tutto, dissetando, finalmente, la terra riarsa. Immediata era la metamorfosi, quasi miracolosa, della natura in festa: da un giorno all'altro, nei campi arati, dai solchi profondi, spuntavano i primi teneri germogli, l'erba rigogliosa vestiva a nuovo pendii e fossati e i fiori di campo aggiungevano ovunque un'allegra nota di colore; ricordo, in particolare, le magnifiche distese a perdita d'occhio delle cosmee.

I pomeriggi piovosi erano ideali per la lettura. Divoravo con passione tutti i romanzi di Salgari, seguivo con ansia le scorribande del Corsaro Rosso, di quello Verde e la vendetta di quello Nero; trepidavo per i mille agguati mortali tesi al prode Sandokan ed ai suoi fedeli nella giungla lussureggiante e nei mari caldi della Malesia. Un altro autore, anzi autrice, di tutt'altro stampo e stile, ma da me ugualmente amata, era Louise M. Alcott con tutta la serie delle "Piccole donne". Ai romanzi più romantici di Delly e simili, sarei approdata più avanti, nei primi anni delle magistrali.

Un altro bel ricordo legato all'estate è quello delle scorribande in bicicletta con le compagne delle medie che abitavano vicino. Il momento più eccitante era provare l'ebbrezza di volare giù, senza tenere il manubrio, per la discesa ripida di Ghezzabanda, quella del viale Marconi dove abitavo e dove c'era il baretto. Beata incoscienza! Non voglio neanche pensare a quel che poteva accadere se la ruota, incappando in ghiaietta o sassolini, avesse subito anche il più lieve scarto…

Ma l'avventura per eccellenza era accompagnare la nonna al mercato per l'acquisto del kemem berberé, le spezie che servivano per condire il berberé. Non era facile ottenere il permesso di papà: "troppa polvere", "troppe mosche", "troppa confusione", tutto era "troppo" per lui, ma anche per me l'evento era "troppo" allettante per rinunciarvi passivamente. Così iniziava il mio assedio con preghiere, suppliche, musi lunghi e poi, al minimo segnale di cedimento, la promessa solenne di non toccare nulla e di stare attaccata alla sottana della nonna. Finalmente si partiva ed io, eccitata e felice, la mano nella mano ruvida e calda di mia nonna, la bombardavo, strada facendo, di mille domande, alle quali rispondeva sempre pacatamente e pazientemente. Al mercato il caleidoscopio di profumi, colori e persone era tale che non ne avevo mai abbastanza. Mi incantavano i colori, mi incuriosivano gli odori di tutte quelle spezie; di alcune mi facevo ripetere i nomi in tigrino: kororima, seseg, avosoda, adri e poi le accostavo al naso, schiacciandole tra pollice e indice, per aspirarne il profumo così peculiare e penetrante.

Intanto i giorni passavano veloci e, dopo il ferragosto, sembravano scivolare via troppo in fretta, finché all'improvviso giungeva settembre, fine delle vacanze, addio dormite e scorribande. La malinconia iniziale, però, non durava mai troppo a lungo; prevaleva l'eccitazione di un altro anno dove tutto, tranne le compagne, ma qualche volta anche quelle, era nuovo: aula, libri di testo, insegnanti. La curiosità per le tante novità all'orizzonte spumeggiava incontenibile, le aspettative apparivano rosee, con il tipico ottimismo di quell'età che neanche le possibili incognite riuscivano ad intaccare. Ed io, ispirata dagli eroi salgariani, mi sentivo più che mai pronta ad affrontare l'ennesima sfida.

Elvira Romano
agosto 2003

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