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Le mani nel cassetto del Chichingiolo
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CHE COTTA!

Ove si narra di una inviata molto speciale del Chichingiolo che va in cucina per intervistare il cuoco e finisce per essere intervistata, a fuoco vivo, su un argomento che le sta evidentemente molto a cuore. L'abbiamo licenziata in tronco, la fedifraga, non per aver violato il codice di deontologia professionale ma per non aver riportato, in redazione, secondo la parola data, i maltagliati con fagioli e cotiche che aveva razziato mentre il cuoco non guardava. Di posto al Chichingiolo per simili infedeli non ce ne sarà mai! Siete avvertiti. Ci consola molto il fatto che l'intervistatrice sia ora a casa con la colite. Buona lettura ma soprattutto buon appetito.

* ** *** ** *


Claudio: Sto preparando una tesina sulla cucina eritrea e sono interessato a conoscere tutto ciò che può derivare dalla diretta esperienza di chi in Eritrea ci ha vissuto. Mi aiuti?
Daniela: Con grandissimo piacere. Il raccontartelo mi dà la possibilità di rivisitare posti e situazioni che ho sempre nel cuore. Inizio dalla preistoria?
C.: Se proprio devi … ma non ci stiamo allargando un pò troppo?
D.: Volevo solo spaventarti un po'! …a parte il fatto che ciò mi ricorda che Lucy, o meglio, i primi resti ossei attribuibili ad un nostro progenitore che risalgono a poco meno di 4 milioni d'anni fa, è stata ritrovata nel 1974 in Etiopia, ad Hadar lungo il fiume Awash, proprio dove noi abbiamo avuto una concessione per la coltivazione delle banane dal 1970 al 1975, quando fummo costretti a lasciare l'Etiopia a causa della rivoluzione…
C.: Allora quando farò uno studio sulle origini dell'Homo Sapiens so dove cominciare! Ma torniamo a tempi relativamente più recenti: come è stato che la nostra famiglia era in Eritrea?
D.: Il primo ad andare in Eritrea fu il bisnonno "Barba", tuo trisnonno, così soprannominato per via della bella barba bianca con cui onorava il mento. Luigi Riva, questo il suo nome, partì da Paladina (Bergamo), dove era nato nel 1873, e a 22 anni andò volontario in Eritrea con il 41mo Fanteria. Sbarcò a Massaua il 27/01/1895, con un reparto del Genio.
Partecipò alle mitiche battaglie di Amba Alagi e fu reduce di Adua. Congedato a Keren nel 1897, iniziò l'attività di impresario. Benemerito per le sue innumerevoli opere di bene, fu nominato Cavaliere Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia.
Quando si congedò dall'esercito, si stabilì a Keren e richiamò dall'Italia Camilla, la sua sposa. Ebbero quattro figli, tra i quali la tua bisnonna Peppina, madre di tua nonna Lorenzina e di mio papà e nonna di tua mamma e mia, che siamo la terza generazione della famiglia nata in Eritrea. È chiaro il quadro familiare?
C.: Certo. Tutto questo è accaduto nell'ambito della colonizzazione in Eritrea ed in Etiopia da parte dell'Italia?
D.: Sì. Prima per iniziativa di Crispi, che voleva fare del Regno d'Italia una potenza coloniale, e poi con Benito Mussolini che, nel 1936 proclamò durante il Fascismo, grazie alle colonie, l'Impero Coloniale Italiano. Tutto finì con la seconda Guerra Mondiale.
C.: Abitando là, avevate acquisito abitudini locali?
D.: Il nostro modo di vivere era molto italiano, legato alle tradizioni italiane. Ma pur mantenendo usi e costumi italici, avevamo adottato di buon grado la cucina locale. Nonna Peppina era una vera esperta. Cuoca appassionata, aveva sempre sul fuoco una pentola della cucina eritrea ed una di quella italiana. Se tu potessi intervistare lei, avresti le ricette più prelibate, ci puoi giurare!
C.: Voi mangiavate abitualmente la cucina eritrea quindi, ma ne seguivate anche tutto il rituale?
D.: No davvero. Un pranzo eritreo inizia con un tipico rituale, il lavaggio delle mani. A tavola viene portata una brocca di metallo o terracotta contenente acqua, la quale viene versata sulle mani degli ospiti. Subito dopo viene servita la prima portata, un leggero piatto di fermenti o siero di latte seguito da specialità piccanti. Avrai già parlato ampiamente, immagino, dello zighinì, accompagnato inevitabilmente dall'injera. L'injera viene disposta a strati sopra i mesob, cioè speciali supporti di paglia colorati, decorati finemente e intrecciati. Parti diverse di zighinì sono disposte sugli strati dell'injera. Non ci sono posate. Si mangia con le mani, usando solo tre dita della mano destra: il pollice, l'indice ed il medio. Chi usa le 5 dita è proprio un maleducato, un pò come quando da noi si mette il coltello in bocca! Nel mesob. tutto quello che bisogna fare è staccare un pezzo di injera e arrotolarlo attorno ai pezzetti di carne o alle verdure, portando poi il boccone in bocca. Anzi, se tu sei ospite in una casa eritrea, la padrona di casa confezionerà il primo boccone e te lo metterà in bocca, per darti il benvenuto al loro desco.
A fine pasto ripassano i servitori con la caraffa di acqua tiepida per permetterti di detergere le tre dita usate per il pranzo. Dopo il pranzo segue il rito del caffè.
Tu sai che la bevanda più popolare del mondo è nata in Etiopia e prende il nome proprio dalla regione del Kaffa.
Una leggenda etiope dice che un giovane pastore di nome Kaldi si meravigliò nel vedere le sue pigre capre rinvigorirsi e vivacizzarsi, dopo avere masticato alcune bacche. Kaldi a sua volta le assaggiò, poi pensò di tostarle, credo, e in qualche modo è nato il caffè.
Il rito del caffè è senz'altro molto pittoresco agli occhi di un turista. Non bisogna avere fretta. Il rito è lungo e favorisce le chiacchiere, le confidenze. Si accende l'incenso, si tosta il caffè… (La cugina Loretta è un'esperta. Ha anche tutta l'attrezzatura, che ha portato da uno dei viaggi in Arabia Saudita. Alla prima occasione fatti preparare il caffè eritreo, così prendi nota dal vivo. Il bello della diretta…)
Vengono serviti tre "giri di caffè": il primo per gli uomini, il più forte; il secondo per le donne e il terzo, il più debole, per i vecchi ed i bambini. Il caffè etiope è corposo e dolce, ma in alcune regioni lo bevono addirittura salato. Spesso servono insieme anche il Kolo, che è composto da semi di grano e chicchi di ceci tostati. Oppure da una specie di pop corn, non di mais ma di un cereale chiamato dura
C.: Voi facevate l'injera in casa, oppure l'acquistavate pronta?
D.: L'abbiamo sempre acquistata, anche se c'era chi si era fatto fare un mogogò in cortile. Si tratta di un forno… immagina un terzo di una botte in cemento, rovesciato in modo da avere il piano rotondo in alto, che sarà poi il piano di cottura. Da un'apertura a livello del pavimento si mette dentro il carbone o la legna e si scalda bene. Quando il piano di cottura è caldo, si unge con l'olio e quindi si versa con movimento circolatorio, partendo dall'esterno ed arrivando al centro, la pastella ottenuta dalla macerazione del composto di farina di Taff e acqua. Poi si copre con un coperchio a cono e si lascia cuocere.
Da ragazzi, quando avevamo lezione al pomeriggio, all'uscita da scuola si andava a comperare un'injera per fare merenda, e te la preparavano proprio al momento: una spolverata di sale e berberè… che delizia!
C.: Avevi spesso occasione di mangiare secondo il rituale eritreo?
D.: Non erano tante le occasioni, ma certamente quelle più importanti erano quando si era invitati ai matrimoni, dove il cibo e le bevande venivano servite per tre giorni e tre notti in tendoni chiamati Das preparati fuori dalla casa dello sposo e della sposa, al suono festoso di tamburi e canti.
Oppure dopo 40 giorni dai funerali, si visitava la casa del defunto per porgere le condoglianze e ugualmente per tre giorni e tre notti venivano offerti dai familiari del morto cibi e bevande in un tendone chiamato Tazkar.
C.: Hai un ricordo particolare legato al cibo che mi vuoi raccontare?
D.: Fammi pensare… forse quando siamo stati a Mersa Cub Cub, dove i kerenini avevano costruito un piccolo villaggio per le vacanze costituito da racube, cioé comode capanne in legno e paglia, il cui tetto all'interno era foderato da fogli di cellofan perché le rare precipitazioni non creassero danni al rudimentale ma funzionale arredamento interno. Dentro la racuba c'era tutto, incluso un vecchio ma efficiente frigorifero a nafta, per la conservazione dei viveri, per assicurare bibite fresche e per produrre il ghiaccio. Al mattino si partiva con il motoscafo per pescare, a traino. Quindi si consegnava al cuoco il pesce fresco, che veniva pulito e cucinato alla brace.
Ma la cosa più buona del pranzo era il pane che il personale ci cuoceva impastando farina, acqua e sale ed avvolgendo l'impasto attorno a delle pietre tonde che toglievano dal fuoco incandescenti. L'impasto si cuoceva immediatamente al solo contatto con la pietra caldissima ed il risultato era delizioso: un misto tra la crosta della polenta e quel pane sardo, carasau o carta da musica.
C.: Una tua preferenza, una ricetta personale?
D.: La pizza con lo zighinì. Un originale connubio italo-eritreo
Ci vuole uno zighinì fatto con la carne tritata oppure tagliata a pezzetti piccoli piccoli. Quindi quella pizza alta, al taglio, solo con pomodoro e origano, senza mozzarella, generalmente la trovo dal fornaio. Si taglia la pizza orizzontalmente, si mette cinque minuti a riscaldare e si farcisce con lo zighinì. È ottima sia per uno snack che proprio per pasteggiare.
C.: Ora chiudiamo davvero: cosa è il "mal d'Africa"?
D.: Ho letto da qualche parte di uno che ha detto: "In realtà a me non interessa poi tanto di capire razionalmente cosa sia questo mal d'Africa. So che esiste e mi fa piacere essermi ammalato." Condivido.
C.: Grazie, mi è piaciuta questa carrellata di ricordi africani.
D.: Non è gratuita. Procurami la copia delle foto dei bisnonni Peppina e Battista che ti ho chiesto, e allora saremo pari!

©Daniela Toti 2003


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