Ove si
narra di una inviata molto speciale del Chichingiolo che va in cucina
per intervistare il cuoco e finisce per essere intervistata, a fuoco
vivo, su un argomento che le sta evidentemente molto a cuore. L'abbiamo
licenziata in tronco, la fedifraga, non per aver violato il codice
di deontologia professionale ma per non aver riportato, in redazione,
secondo la parola data, i maltagliati con fagioli e cotiche che aveva
razziato mentre il cuoco non guardava. Di posto al Chichingiolo per
simili infedeli non ce ne sarà mai! Siete avvertiti. Ci consola
molto il fatto che l'intervistatrice sia ora a casa con la colite.
Buona lettura ma soprattutto buon appetito.
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Claudio: Sto preparando una tesina sulla cucina eritrea
e sono interessato a conoscere tutto ciò che può derivare
dalla diretta esperienza di chi in Eritrea ci ha vissuto. Mi aiuti?
Daniela: Con grandissimo piacere. Il raccontartelo mi dà
la possibilità di rivisitare posti e situazioni che ho sempre
nel cuore. Inizio dalla preistoria?
C.: Se proprio devi
ma non ci stiamo allargando un pò
troppo?
D.: Volevo solo spaventarti un po'!
a parte il fatto che ciò
mi ricorda che Lucy, o meglio, i primi resti ossei attribuibili ad
un nostro progenitore che risalgono a poco meno di 4 milioni d'anni
fa, è stata ritrovata nel 1974 in Etiopia, ad Hadar lungo il
fiume Awash, proprio dove noi abbiamo avuto una concessione per la
coltivazione delle banane dal 1970 al 1975, quando fummo costretti
a lasciare l'Etiopia a causa della rivoluzione
C.: Allora quando farò uno studio sulle origini dell'Homo
Sapiens so dove cominciare! Ma torniamo a tempi relativamente più
recenti: come è stato che la nostra famiglia era in Eritrea?
D.: Il primo ad andare in Eritrea fu il bisnonno "Barba",
tuo trisnonno, così soprannominato per via della bella barba
bianca con cui onorava il mento. Luigi Riva, questo il suo nome, partì
da Paladina (Bergamo), dove era nato nel 1873, e a 22 anni andò
volontario in Eritrea con il 41mo Fanteria. Sbarcò a Massaua
il 27/01/1895, con un reparto del Genio.
Partecipò alle mitiche battaglie di Amba Alagi e fu reduce
di Adua. Congedato a Keren nel 1897, iniziò l'attività
di impresario. Benemerito per le sue innumerevoli opere di bene, fu
nominato Cavaliere Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia.
Quando si congedò dall'esercito, si stabilì a Keren
e richiamò dall'Italia Camilla, la sua sposa. Ebbero quattro
figli, tra i quali la tua bisnonna Peppina, madre di tua nonna Lorenzina
e di mio papà e nonna di tua mamma e mia, che siamo la terza
generazione della famiglia nata in Eritrea. È chiaro il quadro
familiare?
C.: Certo. Tutto questo è accaduto nell'ambito della colonizzazione
in Eritrea ed in Etiopia da parte dell'Italia?
D.: Sì. Prima per iniziativa di Crispi, che voleva fare del
Regno d'Italia una potenza coloniale, e poi con Benito Mussolini che,
nel 1936 proclamò durante il Fascismo, grazie alle colonie,
l'Impero Coloniale Italiano. Tutto finì con la seconda Guerra
Mondiale.
C.: Abitando là, avevate acquisito abitudini locali?
D.: Il nostro modo di vivere era molto italiano, legato alle tradizioni
italiane. Ma pur mantenendo usi e costumi italici, avevamo adottato
di buon grado la cucina locale. Nonna Peppina era una vera esperta.
Cuoca appassionata, aveva sempre sul fuoco una pentola della cucina
eritrea ed una di quella italiana. Se tu potessi intervistare lei,
avresti le ricette più prelibate, ci puoi giurare!
C.: Voi mangiavate abitualmente la cucina eritrea quindi, ma ne
seguivate anche tutto il rituale?
D.: No davvero. Un pranzo eritreo inizia con un tipico rituale, il
lavaggio delle mani. A tavola viene portata una brocca di metallo
o terracotta contenente acqua, la quale viene versata sulle mani degli
ospiti. Subito dopo viene servita la prima portata, un leggero piatto
di fermenti o siero di latte seguito da specialità piccanti.
Avrai già parlato ampiamente, immagino, dello zighinì,
accompagnato inevitabilmente dall'injera. L'injera viene disposta
a strati sopra i mesob, cioè speciali supporti di paglia colorati,
decorati finemente e intrecciati. Parti diverse di zighinì
sono disposte sugli strati dell'injera. Non ci sono posate. Si mangia
con le mani, usando solo tre dita della mano destra: il pollice, l'indice
ed il medio. Chi usa le 5 dita è proprio un maleducato, un
pò come quando da noi si mette il coltello in bocca! Nel mesob.
tutto quello che bisogna fare è staccare un pezzo di injera
e arrotolarlo attorno ai pezzetti di carne o alle verdure, portando
poi il boccone in bocca. Anzi, se tu sei ospite in una casa eritrea,
la padrona di casa confezionerà il primo boccone e te lo metterà
in bocca, per darti il benvenuto al loro desco.
A fine pasto ripassano i servitori con la caraffa di acqua tiepida
per permetterti di detergere le tre dita usate per il pranzo. Dopo
il pranzo segue il rito del caffè.
Tu sai che la bevanda più popolare del mondo è nata
in Etiopia e prende il nome proprio dalla regione del Kaffa.
Una leggenda etiope dice che un giovane pastore di nome Kaldi si meravigliò
nel vedere le sue pigre capre rinvigorirsi e vivacizzarsi, dopo avere
masticato alcune bacche. Kaldi a sua volta le assaggiò, poi
pensò di tostarle, credo, e in qualche modo è nato il
caffè.
Il rito del caffè è senz'altro molto pittoresco agli
occhi di un turista. Non bisogna avere fretta. Il rito è lungo
e favorisce le chiacchiere, le confidenze. Si accende l'incenso, si
tosta il caffè
(La cugina Loretta è un'esperta.
Ha anche tutta l'attrezzatura, che ha portato da uno dei viaggi in
Arabia Saudita. Alla prima occasione fatti preparare il caffè
eritreo, così prendi nota dal vivo. Il bello della diretta
)
Vengono serviti tre "giri di caffè": il primo per
gli uomini, il più forte; il secondo per le donne e il terzo,
il più debole, per i vecchi ed i bambini. Il caffè etiope
è corposo e dolce, ma in alcune regioni lo bevono addirittura
salato. Spesso servono insieme anche il Kolo, che è composto
da semi di grano e chicchi di ceci tostati. Oppure da una specie di
pop corn, non di mais ma di un cereale chiamato dura
C.: Voi facevate l'injera in casa, oppure l'acquistavate pronta?
D.: L'abbiamo sempre acquistata, anche se c'era chi si era fatto fare
un mogogò in cortile. Si tratta di un forno
immagina
un terzo di una botte in cemento, rovesciato in modo da avere il piano
rotondo in alto, che sarà poi il piano di cottura. Da un'apertura
a livello del pavimento si mette dentro il carbone o la legna e si
scalda bene. Quando il piano di cottura è caldo, si unge con
l'olio e quindi si versa con movimento circolatorio, partendo dall'esterno
ed arrivando al centro, la pastella ottenuta dalla macerazione del
composto di farina di Taff e acqua. Poi si copre con un coperchio
a cono e si lascia cuocere.
Da ragazzi, quando avevamo lezione al pomeriggio, all'uscita da scuola
si andava a comperare un'injera per fare merenda, e te la preparavano
proprio al momento: una spolverata di sale e berberè
che delizia!
C.: Avevi spesso occasione di mangiare secondo il rituale eritreo?
D.: Non erano tante le occasioni, ma certamente quelle più
importanti erano quando si era invitati ai matrimoni, dove il cibo
e le bevande venivano servite per tre giorni e tre notti in tendoni
chiamati Das preparati fuori dalla casa dello sposo e della sposa,
al suono festoso di tamburi e canti.
Oppure dopo 40 giorni dai funerali, si visitava la casa del defunto
per porgere le condoglianze e ugualmente per tre giorni e tre notti
venivano offerti dai familiari del morto cibi e bevande in un tendone
chiamato Tazkar.
C.: Hai un ricordo particolare legato al cibo che mi vuoi raccontare?
D.: Fammi pensare
forse quando siamo stati a Mersa Cub Cub,
dove i kerenini avevano costruito un piccolo villaggio per le vacanze
costituito da racube, cioé comode capanne in legno e paglia,
il cui tetto all'interno era foderato da fogli di cellofan perché
le rare precipitazioni non creassero danni al rudimentale ma funzionale
arredamento interno. Dentro la racuba c'era tutto, incluso un vecchio
ma efficiente frigorifero a nafta, per la conservazione dei viveri,
per assicurare bibite fresche e per produrre il ghiaccio. Al mattino
si partiva con il motoscafo per pescare, a traino. Quindi si consegnava
al cuoco il pesce fresco, che veniva pulito e cucinato alla brace.
Ma la cosa più buona del pranzo era il pane che il personale
ci cuoceva impastando farina, acqua e sale ed avvolgendo l'impasto
attorno a delle pietre tonde che toglievano dal fuoco incandescenti.
L'impasto si cuoceva immediatamente al solo contatto con la pietra
caldissima ed il risultato era delizioso: un misto tra la crosta della
polenta e quel pane sardo, carasau o carta da musica.
C.: Una tua preferenza, una ricetta personale?
D.: La pizza con lo zighinì. Un originale connubio italo-eritreo
Ci vuole uno zighinì fatto con la carne tritata oppure tagliata
a pezzetti piccoli piccoli. Quindi quella pizza alta, al taglio, solo
con pomodoro e origano, senza mozzarella, generalmente la trovo dal
fornaio. Si taglia la pizza orizzontalmente, si mette cinque minuti
a riscaldare e si farcisce con lo zighinì. È ottima
sia per uno snack che proprio per pasteggiare.
C.: Ora chiudiamo davvero: cosa è il "mal d'Africa"?
D.: Ho letto da qualche parte di uno che ha detto: "In realtà
a me non interessa poi tanto di capire razionalmente cosa sia questo
mal d'Africa. So che esiste e mi fa piacere essermi ammalato."
Condivido.
C.: Grazie, mi è piaciuta questa carrellata di ricordi africani.
D.: Non è gratuita. Procurami la copia delle foto dei bisnonni
Peppina e Battista che ti ho chiesto, e allora saremo pari!
©Daniela
Toti 2003