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IL TÉ DELLA SIGNORA B.
La
prima casa che abitai ad Asmara era accanto a un bordello. Però
io non lo sapevo e, peggio ancora, non lo capivo; eppure, ogni
giorno, e specie nei pomeriggi di domenica, una fila di belle
ragazze salivano una alla volta o in gruppi di due o tre seguite
da un uomo, o due, o tre, la scaletta della palazzina accanto
al Moka Bar.
"Sono le sharmutte, le lavoranti della sartoria" diceva
mio marito. "Prendono le misure ai clienti". Eravamo
nel 1968 ma lui mi teneva nella pudica ignoranza che più
si addice a una sposina 1930.
Del resto Giancarlo Laborero - che era stato ad Asmara da turista
- l'aveva detto quando seppe che ci andavo: "Asmara... oh...
Asmara, una città addormentata come Caltanissetta nel 1930"
e questo detto da un uomo che dichiarava, forse citando qualcuno,
che "l'occhio del turista non è ricettivo".
Ognuno ha il suo punto di vista. Infatti il dottor Setti... ah!...
il dottor Setti, il nostro medico di famiglia, donnaiolo mondano,
fotografato su OGGI accanto alla contessa Bellentani in smoking
bianco, Villa d'Este, 1946, pizzicatore di ragazzine in fiore
(ne sapevo qualcosa), disse invece:
"Asmara!?..ma sei pazza portare una bambina di un mese ad
Asmara??.. lì c'è la malaria e tanti mali che riempiono
una Treccani delle malattie. Credimi, so di cosa parlo, ci ho
fatto la guerra d'Africa".
Ma ormai eravamo nel 1968.
Sì, perché ad Asmara ci arrivai una mattina di gennaio
nel 1968. Una borsa apposita conteneva una figlia di trenta giorni,
e le sharmutte le vedevo salire le scalette mentre l'accudivo,
spiandole attraverso il traliccio di legno che racchiudeva su
tre lati l'enorme terrazza del nostro appartamento sopra al Moka
Bar.
Il Moka Bar lo teneva una benevola coppia veneta, arrivati nel
1937 e rimasti "insabbiati", lei una biondo-cenere,
ossigenata convincente, di una certa età ma ancora appetibile.
Lui, ecco... me lo ricordo come uno di quei camerieri delle terrasses
parigine, in bianco e nero: con pantaloni e panciotto neri e un
grembiule bianco lungo fino ai piedi, biondo-rossastro, calvizie
incipiente, con i baffi... sarà così?
Un posto simpatico il Moka Bar, frequentato da decorosa gente
alla buona, una specie di osteria di buon tono dove alle volte
scendevo anch'io, asmarina accidentale, non a prendere il caffe!,
ma a chiedere, questo o quel consiglio alla Signora, che, materna,
mi trattava come una figlia minorata. Era la nostra padrona di
casa a cinquanta dollari USA mensili.
Anche le sharmutte lo frequentavano ed era lì che incontravano
i clienti da misurare. Non avevo capito nemmeno che anche il bordello
era della benevola coppia veneta. Bisogna pur arrangiarsi in tutti
i modi alla fine di un'era coloniale, con una patria sconosciuta
dove non si può o non si vuol tornare.
Di italiani, ad Asmara, ci erano rimasti o gli oscenamente ricchi
- ce ne erano parecchi - o i nostalgici incurabili, o i disperatamente
sprovvisti che si chiamavano "insabbiati" o la vecchia
"aristocrazia" coloniale arrivata dopo Adua, i coloni
che non avevano più una lira, ex- proprietari di grandi
piantagioni dove avevano buttato non solo il sangue degli eritrei,
ma anche il loro, anche loro rimasti insabbiati, anzi insabbiatissimi
che la loro patria d'origine certi la conoscevano solo attraverso
vecchie fotografie del tardo Ottocento in cui si intravedeva,
come spiegava, mostrandomele senza affettazione, la vecchia duchessa
Santorino, "A destra mia madre con sua cugina, la marchesa
Caciotti, a Salsomaggiore nel 1890..." seguite da: "Questa
è la piantagione nel 1901... questo in camicia con la zappa,
è mio suocero... avevano appena cominciato a sterrare,
certo!.. (davanti alla mia sorpresa che un duca zappasse la terra)...
lavorava anche lui sulla terra!". Poi c'erano le fotografie
dell'ex palazzo di famiglia, via Toledo 1870, o quella della duchessa
nonna a un ricevimento di Margherita (l'Augusta Sovrana).
A questi non era rimasta nemmeno una soffitta nel palazzo ducale
né i soldi dell'aereo per tornare in patria e in più
amavano appassionatamente il loro paese d'adozione, in cui volevano
morire. Pochi, riservati e discreti si tenevano in disparte, schivi
di mondanità, evitando la società dei nuovi ricchi,
imprenditori arricchitisi durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Col passar del tempo mi resi conto che allora - quasi cinquant'anni
fa - la società di Asmara era a suo modo congenialmente
integrata nel senso che, provvisto che ogni colore stesse col
suo, bianchi e neri convivevano sopportandosi e/o ignorandosi
a vicenda.
Non c'erano rancori. Gli eritrei mica avevano macellato gli italiani
come i Mau-Mau gli inglesi in Kenya, e i vecchi eritrei dicevano
"si stava meglio con gli Taliani" Adesso, nel 1970,
andavano a scuola insieme, separati non dal colore ma dalla classe:
quelli bene, bianchi e neri (quattro) al Liceo Martini, il resto
neri (tanti) e bianchi (alcuni) all'Istituto tecnico Bottego per
geometri e ragionieri. Che al Liceo ci fossero più bianchi
e all'Istituto più neri sembrava solo la conseguenza di
un accettabile incidente cromatico.
Molti italiani avevano sposato donne locali, bellissime, eleganti,
femminili, che non erano ben viste e ancor meno ben ricevute,
che poi è tutto relativo: la principessa congolese Obango
(ex educanda del convento delle Orsoline di Namur) sposata a un
de Brabant belga, a Lubumbashi, dove vissi in seguito, era ricevutissima.
Fu ad Asmara che scoprii il peanut butter. Me ne regalava un vasetto
dietro l'altro Kate Turner, la giovanissima moglie di un sergente
di Radio Marina ovvero Kagnew Station la stazione di "ascolto"
americana. Era una stazione radio talmente potente che la ricevevano
persino in Brasile, Australia e Finlandia. Da ascoltare c'era:
per il pubblico asmarino il rock-and-roll che ci scodellavano
a lunghezza di giornata, per gli americani quello che si dicevano
fra loro i sovietici.
Allora di peanut butter ne potevo mangiare interi vasetti, infatti
lo mangiavo a cucchiaiate, direttamente dal vasetto, il mio metabolismo
di trentenne li smaltiva come acqua fresca e Kate continuava a
regalarmene, arrivato direttamente dagli States. Gli americani,
si facevano venire tutto dagli States, anche le uova e il pane.
Erano i tempi delle minigonne: Kate ne portava di ultramini che,
quando si chinava, per prendere in braccio la figlia infante,
permettevano di ammirare una vasta gamma di mutandine di colore
assortito al vestito.
La buona società locale italiana, di industriali e imprenditori,
era organizzata e dominata dalla molto, ma molto bene Signora
B., un'esile biondina, attorno ai quaranta, dalla languida dolcezza
perentoria che monologava le idee più reazionarie che,
una come me allevata a Bologna, culla del socialismo, avesse mai
udito.
Con la Signora B. non si dialogava: si ascoltava e si assentiva.
Frequentava i ricchissimi salariati americani della Shell, che
cercavano il petrolio nel Mar Rosso.
Erano i VIPs locali. Le americane amavano dare cene a lume di
candela che mi mettevano di cattivo umore perché essendo
miope, anche con gli occhiali, non vedevo cosa avevo nel piatto
che, alle volte, conteneva cose sorprendenti.
Noi non eravamo VIPs, magari lo sembravamo ma non lo eravamo.
La Signora B. mi aveva incontrata ad uno dei frequenti party dei
petroliferi americani ai quali mio marito era invitato perché
lavorava al Servizio Geologico Eritreo, e, forse perché
parlavamo inglese, aveva scambiato il mio consorte per uno di
loro.
Seguì un invito a un tè in casa sua. Anche se avevo
qualche esperienza del bel mondo, avendo tre cognate (acquisite)
aristocraticissime (la madre di una di loro mi aveva dato, come
usava una volta, una lettera di presentazione per la duchessa
Santorino, sua antica compagna di collegio a Poggio Imperiale)
e dodici zie (acquisite anche loro), nobili veneziane, che mi
trattavano eroicamente come una di loro, io ero una petite (très
petite) bourgeoise e non ero mai andata a un té delle cinque.
Potrei dire che accettai l'invito per entrare nella buona società
asmarina. Mentirei. La Signora B. mi aveva intimidita, non ero
stata capace di rifiutare, ecco la verità.
Mi preparai nell'angoscia. Infine, dopo aver cambiato abbigliamento
almeno sei volte, optai per un modesto tajerino di lino rosa impreziosito
da due bei gioielli: un anello con un diamante di un carato e
mezzo (Stern, Sudafrica) e una collana di perle verissime a due
giri (regalo di nozze) che, da quando ne ero entrata in possesso,
mi facevano sentire una tigre mondana.
Arrivai con mezz'ora di anticipo. Aspettai l'ora giusta nascosta
dietro ad una siepe finché, dalla paura di essere scoperta,
mi presentai, ancora in anticipo, al cancello della sontuosa residenza
della Signora B. Ero la prima. In attesa delle altre invitate,
che arrivarono in ritardo, mi intrattenne bonariamente, riponendo
in un armadio, i libri scolastici delle figlie adolescenti, che
andavano al Liceo Martini (naturalmente). Era di luglio e le scuole
erano appena finite: "E questo lavoro tocca sempre a me"
diceva, prendendo in mano i libri uno alla volta, sospirando lievemente,
con rassegnazione, con lo sguardo di una santa Maria Goretti.
La signora B. aveva una voce dolcissima, ben modulata, melodiosa.
Parlava quasi sottovoce, lentamente.
Faceva domande retoriche che non aspettavano risposta. Io invece
parlavo con la voce strozzata e non sapevo cosa fare e cosa dire.
Cercai maldestramente di aiutarla a riporre i libri. Eppure, dannazione,
anche se acquisita, ero pur sempre la cognata di una Melzi di
Milano, di una Siccardi di Torino e di una Trigona di Palermo.
Non-serviva-a-niente!
Dal piano di sopra le figlie suonavano a tutto volume "Monday...
Monday" dei Mamas and Papas, una canzone che mi ricorda sempre
e ancora quel momento.
Arrivarono le altre invitate. Tutte copie della Signora B., che
nel frattempo si era assentata. Sedute in salotto, fra i soliti
convenevoli introduttivi, una di loro così, en passant,
senza intenzioni esibizionistiche, solo perché parlando
agitava la mano sinistra nel vuoto, mi sventolò sotto al
naso un diamante di almeno trenta carati (dico trenta per dire
quanto era grande).
La signora B. ritornò in salotto e alle affrettate presentazioni
iniziali, quasi a giustificare la mia presenza fra loro, aggiunse
languidamente: "Il marito della signora P. lavora per la
Shell..."
Io, incauta, precisai: "No, veramente lavora al Servizio
Geologico Eritreo".
Dopo un attimo di silenzio: "Ah! sí?...." ribatté
gelida la Signora B., con una voce metallica, fissandomi con la
sorpresa di chi trova un verme in una bella mela, stupita che
una pariah sociale, du coté noir, fosse seduta nel suo
salotto.
I miei ricordi si fermano a quei due monosillabi e a quello sguardo.
Chiaro, non mi mise alla porta, ma, di certo, fu il solo té
della Signora B. a cui fui invitata.
Però devo dire che se m'incontrava per strada mi salutava,
possibilmente da lontano.
Dolcissima Signora B., non ti ho mai dimenticata.
©Anna
Levi - Istanbul 2012
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Caro
Chichingiolo,
mi riferisco all'articolo "Il te della signora B.",
ben raccontato dalla signora Levi che ha descritto con leggerezza
l'atmosfera di quell'epoca, nonché i vizi e le virtù;
desidero, tuttavia, rilevare che, nella descrizione sono presenti
profonde inesattezze.
Nel
1968, infatti, il Moka Bar, all'angolo fra Avenue Hailè
Sellassiè e via Daniele Comboni, era gestito da una
signora di una certa età, di nome Rosina, di assoluta
e provata serietà. L'edificio sopra il bar aveva il
portone in via Daniele Comboni 4: al piano rialzato abitava
la famiglia del Dott. Patti, al primo piano e, in parte del
secondo, operava la Pensione Principe, di proprietà
dei rispettabilissimi signori Maria e Giovanni Gerazounis,
frequentata da famiglie che abitavano nell'interland di Asmara.
Sempre al secondo piano abitava la famiglia Lissoni e al terzo,
e ultimo piano, cioè l'attico, viveva la famiglia Palmieri.
Volevo
assicurare la signora Levi, che di donne di male affare non
c'era neanche l'ombra; può accadere che con il passare
degli anni i ricordi si appannino e, sicuramente, c'è
stata, da parte della signora, un po' di confusione.
Federica Palmieri
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29 Marzo 2012
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Dopo
quattro anni anche per mantenere i contatti, mi permetta di
rispondere alla gentile lettera della signora Federica Palmieri
del 29 Marzo 2012, che ringrazio dei commenti
Il
caffé di cui parlo nel racconto "Il té
della signora B" e l'unico appartamento sovrastante esistevano
veramente come li ho descritti, ma il nome l'avevo scelto
di fantasia (caffé=Moka, Moka Caffé) non immaginando
che ne esistesse uno veramente giustificando il comemnto che
con il passare del tempo i ricordi si appannano
Una
versione ampliata e revisionata del racconto é stata
pubblicata in questi giorni in una raccolta intitolata proprio
"Il té della Signora B. " di Anna Levi.
Cordialmente
e sempre con nostalgia
Anna
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27 Settembre 2016
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