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LA PASQUA...
 
di Daniela Toti


Caro Kikki,
hai mai assistito alla riparazione di un nido di rondine? La rondine torna allo stesso nido che ha lasciato l'autunno precedente, lo pulisce laboriosa e, quando necessario, lo ripara. Passavo ore da bambina a Elaberet, in veranda, a guardare le nuove modifiche e riparazioni che le rondini, al loro ritorno, apportavano al vecchio nido: potevo seguire il progresso dei lavori osservando lo sviluppo della zona più scura, quella nuova, ancora bagnata.
Ieri sono uscita in giardino e guardando in alto ho visto un pezzetto di nido nuovo, più scuro, ancora umido. E mi sono tornati in mente i libri delle elementari, i sussidiari li chiamavamo. Su quei libri noi bimbi di Asmara imparavamo cosa fosse il susseguirsi delle stagioni in Europa e tutto ciò che, per antonomasia, le determinava. E' un po' come quando si canticchia la canzone di Stevie Wonder, I just called to say... dove ogni mese ha un preciso riferimento, gennaio è capodanno, febbraio è i dolci a forma di cuore ricoperti di cioccolato per San Valentino, marzo è l'inizio della primavera, aprile è la pioggia, e via via fino al segno della bilancia e ad Halloween che sono l'autunno, poi la festa del ringraziamento è novembre e, finalmente, Natale che segna dicembre.
E le stagioni del sussidiario erano un po' così: e se una rondine non fa Primavera, le rondini però arrivano a Primavera, che è sinonimo di Pasqua. Su ogni sussidiario che si rispetti, a poche pagine di distanza c'era la lettura sulla Primavera e quella sulla Santa Pasqua. E allora si preparavano i disegni dei fiori rosa di pesco, e delle rondini nere con il petto candido, e delle campane, e dei pulcini gialli tra le uova schiuse, e dei coniglietti… a me venivano bene i coniglietti visti dal dietro, un cerchio grande per il corpo, con un cerchio più piccolino, in basso, per la coda, un cerchio appoggiato più in alto per la testa, con le lunghe orecchie. Ecco, il coniglietto era lì, pronto a partecipare alla grande parata pasquale. Tante volte Pasqua era a Massaua, altre ad Elaberet. Molte ad Asmara. Cos'era la Pasqua per noi che non vivevamo il miracolo della rinascita della Primavera, della fioritura degli alberi da frutto, del verde tenerissimo dei primi germogli, del cinguettio che finalmente abita le cime degli alberi? Era la vacanza dalla scuola, la fine del fioretto di Quaresima, era il profumo delle uova di cioccolato con quelle meravigliose sorprese...
Già dalla domenica delle Palme, Ametè, la nostra adorata Ametè, ci portava dalla Chiesa Copta gli anelli costruiti con una foglia di palma benedetta: bellissimi quegli anelli alti come torri, che a fatica duravano fino a Pasqua ma che portavamo fiere come fossero fatti di materiale prezioso.
Poi, la settimana Santa, quella raccontata l'anno scorso e quindi Pasqua.
Ametè, che con l'arrivo di Fasika, la Pasqua copta, finiva la Quaresima e quel suo digiuno severo, indossava il suo zuria più bello e andava in Chiesa già dalla notte del venerdì per poi, finalmente, tornare a casa la domenica sera con un fagotto annodato che noi aspettavamo golose. C'era uno zighinì di prim'ordine in ciotole di alluminio smaltato e l'hambascià alta e profumata… c'era anche una bottiglietta di mies, che ci passavamo quasi furtive, ridacchiando per la consapevolezza che era pur sempre una bevanda alcolica, per cui "adulta".
Quest'anno è proprio condividendo questi ricordi che vorrei augurare a te e a tutti gli amici Chichingioli una Pasqua serena, da trascorrere in compagnia di chi più ci piace!
A presto,
D.

Cara D.,
Li ricordo quei ricordi di Pasqua, i cartoncini augurali fatti di fiori e campane che un anno, rimembro ancor, ci fecero perfino rifinire con un punto catenella! Altri tempi, altra scuola: ora gli auguri arrivano, se arrivano, via MMS o scritti con i geroglifici moderni e ancor più alla moda se abbreviati all'Inglese: u2, cu, 4u, 2u2, quando nl msg nn ci mettiamo anke del ns…
Io le rondini le ricordo alte e chiassose mentre volteggiavano attorno al campanile della Cattedrale. Nel mio piccolo passavo ore ad osservare creature più terragne come i bruchi degli alberi di pepe selvatico, le vespe giallo-nere a caccia di insetti verdognoli, cavallette saltellanti fra l'erba. L'occasione era sempre buona per non studiare...
Buona Pasqua a te e tutti i Chichingioli.
Il C.

 

7 Aprile 2007

 
... E LE FORMICHE
di Daniela Toti


Caro Kikki,
non pensare che io stessi sempre con il naso all'insù a guardare le rondini (come potresti aver giustamente dedotto dai miei racconti...). Anch'io ero affascinata dalle creature terragne come le chiami tu, e in particolare dalle formiche. Naturalmente è stato un amore nato ad Elaberet, in quella meravigliosa opportunità di essere a contatto con gli animali, i fiori, i frutti, la terra, i sassi e... le formiche.
Mi procuravo un pugnetto di bulduc o di dura (sorgo?) e lo versavo a piramide ai margini del foro del formicaio, poi rimanevo là ad osservare, affascinata dalla rapidità con cui le laboriosissime formiche portavano dentro la tana quelle provviste così piacevolmente inaspettate.
Ci fu quella volta che la “zia” Umberta, simpaticissima amica di Mamma da quando erano adolescenti, venne a trascorrere da noi qualche giorno ad Elaberet. Veniva da Mantova, dove era andata a vivere dopo il rimpatrio, ed un medico che conosceva le aveva chiesto di procurarle tutti i tipi di formiche e termiti che avrebbe potuto trovare in terra d'Africa. Le aveva dato un’attrezzatura composta da vari piccoli contenitori etichettati dentro i quali doveva mettere la specie di formiche che avrebbe catturato con una bottiglietta contenente della segatura impregnata di etere e provvista di due cannucce: si metteva una cannuccia in bocca e l’altra sopra la formica. Inspirando, l’aria “succhiava” la formica dentro la bottiglietta che cadeva sulla segatura e rimaneva anestetizzata. Mi offrii entusiasta di compiere la ricerca per lei e per più di qualche giorno fui impegnatissima in quel nuovo affascinante compito che mi consentì di scoprire quante e quali specie esistevano, di quante e quali dimensioni, forme e colorazioni: nere, marroni e rosse, piccine e più grandi, con il testone più grosso e in qualche caso più rosso. Ma fu con sorpresa che scoprii che quello che più le differenzia è proprio l'apparato mandibilare, dove risiedono le loro armi di difesa ed attacco, i loro strumenti di lavoro. Riuscii a riempire tutti i piccoli contenitori e in compenso dormii tantissimo, visto che - seppur in minime quantità - inspiravo anch’io di quell’etere destinato alle malcapitate formiche!
E a proposito invece delle cavallette, come non ricordare quelle terribili invasioni? Era tra gli anni ' 57 e ' 60, quando vi fu un’invasione di locuste che coprì come una coltre Asmara. Un’esperienza particolarissima. Mi ricordo guardare attraverso i vetri ben chiusi quello sciamare che quasi oscurava il sole. E l’ossessivo ticchettio dal continuo sbattere contro i vetri di centinaia e centinaia di cavallette. Durò un giorno oppure di piú, non ricordo. So solo che quando ottenni il permesso di salire in terrazzo, questo era ancora pieno di cavallette che scricchiolavano sotto i piedi al passarci sopra... terribile sensazione!
Ho letto qualche spiegazione sull’origine e sviluppo di questa antica e devastante calamità. I ritmi di moltiplicazione sono impressionanti, poiché ogni femmina depone 80-90 uova per volta. Gli individui adulti, che pesano circa 2 grammi, consumano al giorno una quantità di cibo pari al proprio peso. L'ottava piaga d'Egitto.
Mi piacerebbe saperne di più, chissà se magari qualcuno dei lettori del Chichingiolo...
Un abbraccio
D.

Cara D.,
Lo spazio c'è ed è a disposizione di chi vorrà ulteriormente sviluppare il tema delle cavallette, termiti, formiche volanti, e via elencando. Nel frattempo, visto il riferimento biblico di chiusura, mediteremo su questi versetti del Libro:

Va', pigro, dalla formica,
considera le sue vie e impara ad essere saggio.
Essa, senza avere né duce,
né istruttore, né principe,
prepara nell'estate il suo sostentamento
e nel tempo della mésse raccoglie da mangiare.
Infino a quando, o pigro, dormirai?
(Proverbi: 6, 6-9)

il C.

 
11 Aprile 2007

LE LOCUSTE
di Franco Caparrotti


Caro Chichingiolo,
a proposito delle locuste, desidero aggiungere due righe.
Il termine generico di Cavalletta è Caelifera, ma noi parliamo delle cavallette migratorie, quindi delle Acrididi, più propriamente dette LOCUSTE. (Per ulteriori informazioni consultare una buona Enciclopedia)
In Etiopia c'era un'organizzazione vera e propria poi estesa con la Convenzione del 1962 ad altri stati come Gibuti, Kenia, Somalia, Tanzania, Uganda. Il nome era DLCO-EA (Desert Locust Control Organization for Eastern Africa) e ad Asmara la sede si trovava proprio nella via dove abitavo io, Strada 122 A, dietro la chiesa di Gaggiret.
Le locuste migravano nell'aree sub sahariane portando a queste zone già martoriate dalla siccità, ulteriore disagi e fame.
Come giustamente ha scritto la nostra Daniela, sono state una delle piaghe dell'Egitto e ancora oggi con tutta la tecnologia e gli insetticidi usati resistono e continuano a turbare il lavoro dei poveri agricoltori.
Ricordo anch'io l'evento di Asmara, quando il cielo fu oscurato da questo sciame di locuste. Oltre alla disperazione di chi lavorava la terra furono però gioia per alcune tavole. Infatti, le carni delle locuste sono considerate simili ai nostri gamberi. Ma… dico io. Sicuramente furono pure delizia per i vari gechi e camaleonti.
Franco Caparrotti

16 Aprile 2007
 


F.I.A.T. - TOPOLINO "A"
di Vincenzo Acquaviva

La frenesia e la passione di poter finalmente guidare un'auto tutta nostra aveva da tempo coinvolto il mio amico e me. L'inconveniente era che non si era ancora in possesso della patente ufficiale e, quel che è peggio, il danaro necessario per permetterci il lusso di comperare una vettura. La volontà, il pensiero e la risolutezza di poter realizzare il sogno era diventato un incubo giornaliero. Se ne discuteva incessantemente nell'ardua ricerca di una qualche soluzione che ci consentisse di poter realizzare il sogno.
Nel frattempo con l'ausilio dei nostri rispettivi padri, avevamo da tempo iniziato a fare scuola guida e a distanza di pochi mesi, dopo aver ottenuto finalmente la patente, ci si sentiva entusiasticamente provetti piloti; quindi lo scopo di avere una nostra vettura si faceva sempre più impellente.
Un pomeriggio l'amico, raggiante di gioia, si presenta a casa dichiarando che una certa signora desidera disfarsi della propria vettura, vendendola. Aggiunge di aver già preso contatto con la proprietaria e che la stessa ci aspetta quella stessa sera, perché si possa prendere visione del mezzo e pertanto addivenire ad un compromesso di compra-vendita. All'ora stabilita, quali provetti intenditori di motori e vetture, ci presentiamo a casa della signora che prontamente ci accompagna nel garage sottostante la casa, scarsamente illuminato, dove notiamo parcheggiata un FIAT Topolino Tipo "A", decappottabile. Sebbene un po' frastornati, onde non destar sospetti e sempre più fiduciosi di poterci esprimere alla guida di una vettura tutta nostra, iniziamo ad esaminare sommariamente la Topolino: pneumatici, motore, carrozzeria, verniciatura, fanaleria, arredamento interno, funzionamento del motore che dopo qualche tentativo parte emettendo una gran nuvola di fumo nero dalla marmitta.
Quest'ultima emissione di gas inquinante, irrespirabile, ci fa desistere dal continuare l'ispezione per rientrare a casa della signora e consultarsi sul da farsi!... Si chiede alla signora perché mai desideri disfarsi del proprio mezzo ed eventualmente a che prezzo. L'interessata, assolutamente imperterrita risponde che lo scopo della vendita è da attribuirsi alla volontà di comperare un mezzo più attuale e spazioso e quindi, disfarsi della Topolino ormai un po' troppo antiquata, ma perfettamente funzionante, per come avevamo potuto constatare.
Facendo leva sulla dichiarazione della signora che poco prima aveva affermato che il mezzo era piuttosto antiquato, dichiariamo la nostra disponibilità a comperarlo ad un prezzo che fosse conciliabile con la veneranda età della vettura. Sempre imperturbabile, la signora dichiara di non farsi passare neanche dall'anticamera del cervello dover turlupinare due giovani ragazzi interessati a comperare il piccolo vetusto mezzo e chiede l'ammontare di 60 $ etiopici, spese di passaggio a carico del compratore.
Dopo un vivace battibecco ed un generoso caffè offerto dalla proprietaria, si raggiunge l'accordo che il prezzo di $ 60 veniva reciprocamente accettato, ma le spese di voltura rimanevano a carico della proprietaria. Su un pezzo di carta (con reciproca fiducia) viene scritto e stabilito e sottoscritto che nell'arco di 2 mesi saremmo tornati con il contante per poi proseguire al trasferimento di proprietà e il conseguente ritiro della vetturetta. Dove trovare il danaro per la vettura? L'inventiva e le scuse non ci mancavano davvero!!! Si comincia a vender bottiglie vuote e scatole di olio vecchie ai tiè-tiè. Le scuse nei confronti dei genitori vengono sostenute dall'assillante richiesta di dover comperare graphos, china, matite, penne, fogli formato "A2" per disegni tecnici di ogni genere, quaderni, album e quant'altro potesse essere componente essenziale per lo sviluppo di compiti ed elaborati scolastici. L'amico, tra i ferri vecchi del cantiere del padre rileva picconi, vanghe, vecchie carriole, chiodi arrugginiti e vende il tutto ad un rappresentante del Caravanserraglio. Alla scadenza dei 2 mesi la somma viene regolarmente racimolata e finalmente si viene in possesso dell'agognata vettura che l'amico consiglia di parcheggiare nel cortile di casa mia.
Mio padre rientrando a casa nel pomeriggio nota il "cadavere" e chiede di chi fosse e perché mai si trovasse nel nostro cortile. Preso alla sprovvista e avendo un ottimo rapporto confidenziale con papà, chiedo venia e comprensione raccontando, per filo e per segno, quanto è stato macchinato pur di avere una vettura. Papà più o meno divertito della marachella, osserva da vicino il mezzo e dopo essersi fatto una sardonica risata esclama: "E' tutta roba vostra, ora dovrete imparare a mantenerla onde non incorrere in spiacevoli incidenti; io non potrò intervenire in vostro soccorso!!! Nello stesso tempo anche tutti gli altri membri delle famiglie vengono informati e in certa misura otteniamo un benevolo benestare. Ora la vettura è in cortile e possiamo esaminarla alla luce del sole e con tutta calma per verificare eventuali danni che possano esserci sfuggiti nella prima visita. Tolti i tappetini, il fondo è letteralmente arrugginito e pieno di buchi. Si rimedia sovrapponendo due fogli di lamiera piuttosto spessi a scanso doverci ritrovare a spazzolare l'asfalto con le scarpe. Fanaleria nell'insieme funzionante, ma gli stop non si accendono. Siamo fortunati, nel portabagagli troviamo una scatoletta con lampade di riserva che ci permettono di rimettere in funzione gli stop dei freni. Gomme apparentemente buone, risultano consumate per almeno il 60%; tengono decentemente la pressione e possono essere ancora utilizzate, sebbene con precauzione. Prova frenata allarmante e deludente. Una ruota blocca, l'altra frena poco, le altre non frenano del tutto. L'accertamento dei ferodi e dei tamburi è rimediabile. Dallo sfasciacarrozze con pochi soldi possiamo comperare 6 ferodi discreti e due tamburi poco consumati. Fatte le opportune sostituzioni dell'apparato frenante e del relativo olio che sembrava fango, la macchina frena male, ma frena. Prova motore: la situazione si presenta preoccupante; il motore consuma più olio che benzina!!! Ci rivolgiamo ad un amico meccanico che, impietositosi, ci cambia le fasce elastiche, smeriglia le valvole, spiana la testata, sostituisce l'olio e due giorni dopo ci riconsegna il "moribondo". Il motore ora è come nuovo e non fuma più.
Qualche altro piccolo ritocco alla carrozzeria ed ai paraurti ci consente di azzardare qualche spostamento in città. Non siamo totalmente delusi, la vettura, bene o male, funziona e ci scarrozza un po' dappertutto.
Gongolanti del successo ottenuto, trasmettiamo la notizia ad altri due amici proponendo la sfida di recarsi a Massaua con la Topolino decappottabile. Onde non surriscaldare il piccolo mezzo, ci si accorda di partire in un tardo pomeriggio. Imboccata la strada che scende al mare, le impervie discese vengono affrontate con le marce alte; i pezzi in pianura, a folle, uso oculato dei freni. Il motore non soffre e la vettura scende a discreta velocità. Verso le 5 del mattino siamo in Piana Dala dove un caldo intenso e afoso ci investe. Io e l'amico comproprietario ci diamo il cambio alla guida; gli altri due sono accartocciati come sardine sui sedili posteriori. Ad un certo punto uno dei fari abbaglianti si spegne. Pazienza procediamo con un solo faro; ci si vede comunque. All'improvviso un sibilo assordante. E' chiaro che l'acqua del radiatore è in surriscaldamento. Ci si ferma e aperto il portellone anteriore del motore, con l'aiuto di una torcia elettrica si ha la prova che l'acqua è in ebollizione. Propongo di fermare la vettura, staccare il portellone per un raffreddamento più efficace, legarlo alla gomma di scorta dietro la macchina e lasciare che si raffreddi un po'. Man mano che passa il tempo, il sibilo diminuisce fino ad estinguersi. La vettura dev'essersi raffreddata e possiamo riprendere il viaggio. Intanto comincia ad albeggiare ed il chiarore del sole che sorge ci permette di avere una visuale più nitida d'insieme. Spegniamo il faro abbagliante e proseguiamo con i fari anabbaglianti. Alle porte di Massaua il sibilo si rimanifesta all'improvviso ed uno zampillo d'acqua bollente si sprigiona dal foro d'uscita del tappo del radiatore per andare a colpire, con una parabola i malcapitati seduti dietro, procurando ustioni sulle spalle ovviamente nude. Le urla di dolore e lo zampillo fumante che notiamo sovrastare le nostre teste, impone una nuova secca fermata. Si scende tutti dalla vettura; gli ustionati cercano di lenire il bruciore gettandosi reciprocamente dell'acqua che era nelle borracce, ma è peggio. Consiglio di non eccedere con questa operazione che peggiora la situazione; sarà sufficiente saper essere pazienti e aspettare che col tempo il dolore si attutisca. Con tutte le precauzioni e la mano destra fasciata da un pesante pezzo di tela apro lentamente il tappo del radiatore e lascio sfogare il vapore che fuoriesce copioso. Aperto il tappo mi rendo conto che siamo quasi a secco di acqua nel radiatore. Ne abbiamo ancora un po' nelle borracce; riaccendo il motore e con altrettanta cautela faccio scorrere l'acqua all'interno dell'incandescente radiatore. La fortuna ci assiste, passa di lì una carovana di cammellieri; chiediamo dell'acqua e questi gentilmente riempiono le nostre borracce, facendoci capire che a pochi km. c'è un piccolo fiume dove possiamo attingere altra acqua. E' stata la provvidenza; trovato il fiume, rimbocchiamo il radiatore e infine siamo a Massaua.
Ci accordiamo per un meritato bagno a Gurgussum, dove possiamo anche rifocillarci per poi decidere il rientro in Asmara. Gli autisti possono godere di un salutare bagno nell'acqua di mare, mentre gli ustionati che stanno già meglio debbono accontentarsi di una lunga fresca doccia. Abbiamo ancora la forza di mangiare avidamente e quindi, stremati dalla fatica ci rifugiamo all'ombra di un muro dove ci si addormenta pesantemente. Al risveglio, uno sguardo all'orologio indica che sono già le 3 del pomeriggio. Abbiamo appena il tempo per un'altro bagno, mangiare qualcosa, aspettare l'approssimarsi del tramonto, fare ampia scorta di acqua e quindi riprendere la strada del rientro (incrociando le dita). Affrontiamo il percorso della Piana Dala a basso regime di giri, mantenendo la quarta marcia il più a lungo possibile.
Ogni tot km, ci si ferma, si rimbocca il radiatore e si riparte. La tecnica adottata e il fresco della sera consentono di raggiungere i primi contrafforti delle montagne che salgono verso l'altopiano. Il fresco si intensifica ed il rombo del motore acquista energia consentendo di viaggiare a velocità accettabile. La temperatura del radiatore è mantenuta costante; il sibilo non c'è più. A Dongollo un rapido controllo ci conferma che tutte le parti meccaniche sono ok e si può tranquillamente proseguire. Affranti, stanchi, affaticati, alle 11.00 di sera superiamo il Crematorio Indiano: siamo a casa.
Abbiamo imprudentemente vinto la sfida che da Asmara ci ha portato a Massaua e ritorno con l'eroica FIAT TOPOLINO SERIE "A" DECAPPOTTABILE del 1936.

Vincenzo
23 Maggio 2007

LE FARFALLE
di Daniela Toti

Quali speranze buone e quali fantasie
la creatura per volar su nata
susciti in cuor di colui che sogna
col suo lento mutare e trasmutare
la meraviglia delle opposte maschere,
la varia grazia delle varie specie,
in versi canterò... Non vi par egli,
non vi par egli d'essere in Arcadia?
(Guido Gozzano, Le Farfalle,
Storia di cinquecento Vanesse)


Caro amico Kikki,
Quando mi hai parlato delle farfalle di Asmara, sul momento non ci ho pensato. Le farfalle del Prof. Olindo Fameli mi sono venute in mente dopo. L'avevo conosciuto ad un raduno a Rimini, nel 1992, il primo (ed unico) dei mitici raduni del Mai Tacli, al quale avevo partecipato per conoscere personalmente quel gentile Signore che era Rodolfo Tani, con il quale avevo scambiato alcune telefonate per un pezzo pubblicato sul M.T. Me lo presentò sua sorella, la Dottoressa Fameli, che abbiamo appena rivisto con tanto piacere al nostro ultimo Raduno, accompagnata dal sempre in gambissima Prof. Tresca.
Il Prof. Fameli disse che l'entusiasmo di essere lì, quel piacere nel ritrovarsi apparteneva ad uno straordinario fenomeno sociale. Accennò ad un libro, una specie di diario, disse, che aveva scritto e che avrebbe voluto intitolare "Le farfalle di Asmara", ma che poi, per scelte editoriali, venne intitolato "Ammalarsi, curarsi, guarire - Memorie di un cardiologo".
Il titolo fu allora trasferito al primo capitolo.

Leggo: "[…] Ma altri aspetti incantevoli del mio soggiorno africano colpivano la mia suggestione distogliendomi dallo studio. Uno di questi era il passaggio delle farfalle. Non so quali fossero i motivi, ma a un certo momento, quasi scattasse un segnale della natura, si assisteva a un massiccio passaggio di farfalle variopinte delle specie più impensate che attraversavano l'aria ad altezza d'uomo. Sembrava una enorme migrazione di piccole ali vibrate nel vento.
Ricordo che ciò accadeva in un periodo piuttosto tiepido dell'anno tanto che i ragazzi che, come me, disertavano le lezioni per ammirare questo spettacolo naturale, portavano i calzoncini corti.
Molti di noi non si limitavano ad assistere all'insolita parata, ma si trasformavano in maldestri cacciatori compiendo involontarie stragi allo scopo di crearsi una bella collezione. Non avendo a disposizione le trappole apposite per la caccia delle farfalle, né reticelle che potessero armare un comune manico di scopa, ci si muniva di un piccolo fascio di rami secchi che, a mo' di clava, veniva vibrato nell'aria al passaggio degli ignari animaletti.
Il risultato era disastroso.
Il sistema consentiva i catturare molte farfalle ma queste, cadute sotto i colpi, rimanevano talmente rovinate da non poter essere inserite poi nelle pagine dei libri, come si usava, per conservarle..."


Le farfalle di Asmara erano magiche, come ci racconta il Prof. Fameli, i nomi che usavamo per distinguerle non erano certo scientifici: Verdone, quelle dalle grandi ali verdi e nere; Cavolaie, le più piccole e bianche; Banane, con delle macchie gialle bordate di nero…
Il Parco della Vittoria, confinante con la zona dell'Expo, alloggiava in un periodo dell'anno una meravigliosa fioritura di margherite che, dal bianco al viola cupo, attraversavano tutte le tonalità del rosa e del lilla. E su quelle corolle volavano le farfalle delicate e lievi, attirando la nostra attenzione. Anche noi volevamo acchiapparle, ma a mani nude, cercando il momento in cui si posavano sui fiori e chiudevano le ali unendole in posizione verticale. Passo felpato, pollice e indice a mo' di pinza, sia pur abbastanza raramente, si riusciva a catturare la farfalla che sarebbe finita, miserrima, trafitta da uno spillo.
Smisi di cercare di catturare ogni farfalla che vedevo, imparando solo a goderne della gentile bellezza, quando partecipai, all'età di dieci anni, ad una lezione di scienze durante la quale assistemmo alla "nascita" delle farfalle. L'insegnante aveva procurato una scatola piena di pupe contenti le crisalidi. Dopo qualche giorno le farfalle uscirono dai bozzoli a fatica, con le ali ancora umide e stropicciate. Man mano che si asciugavano riuscivano a tenderle e finalmente a esibirle in tutta la loro meravigliosa bellezza. L'incanto delle farfalle quando, preso il volo, cercarono l'uscita dalle finestre, per godere della loro brevissima vita volante, mi insegnò a rispettare la loro elegante libertà.
Anche oggi, per il giardino, abbiamo optato per un prato naturale, quello che consente la nascita di fiorellini di campo, del tarassaco e invita quindi piccoli voli di farfalle, una piacevole vista a pallido ricordo delle nostre variopinte farfalle asmarine.
Con forse un'ombra di nostalgia? "Quando ti viene la nostalgia, non è mancanza, è presenza, è una visita, arrivano persone, paesi, da lontano e ti tengono un poco compagnia" dice Erri De Luca in Montedidio.
Ciao, alla prossima,
D.
23 Maggio 2007

LE PEDIVELLE COLORATE
di Daniela Toti

 

Ogni mattina, andando al lavoro, prendo la strada della collina che, tagliando fuori i paesi, mi consente un itinerario più rapido, regalando quei minuti preziosi alla perenne ritardataria che sono da sempre. E' un itinerario bellissimo in tutte le stagioni, ma in estate in particolare. Costeggia anche dei campi di granoturco che ho visto svilupparsi mattina dopo mattina e che ora è alto da nascondermi l'orizzonte; più in là, dove l'hanno appena tagliata, permane nell'aria quell'odore tipico dell'erba falciata di fresco che mi proietta inevitabilmente in terra d'Africa; ma anche il profumo della terra bagnata dagli irrigatori mi fa pensare alla campagna del medio piano africano… la natura al mattino mi mette l'anima in diretta comunicazione con il Cielo e quel tratto di strada mi è ideale per raccomandare la giornata al Padreterno.

Tutto funziona però solo se non incontro i ciclisti, quelli desiderosi di essere identificati tali già dall'abbigliamento… vogliamo parlarne? Li vedo arrancare e mi si presentano di fondo schiena. Inguainati in queste incredibili tutine policrome, corredate di pannolone il cui rilievo è quantomeno imbarazzante per chi li osserva dalla posizione auspicante un quanto mai improbabile sorpasso, visto che occupano il centro della carreggiata. E non basta: hanno anche l'audacia di indossare "quel" caschetto, recuperato direttamente dal set de I Fantastici 4… + 1, cioè lui, il ciclista!

Se capita che il fato generoso quella mattina mi ha risparmiato "il" ciclista da salita, potrebbe avermi però beffardamente riservato "i gitanti". Li trovo in pianura, su city bike. Abbigliamento da gita, età pensionabile, sacca della merenda a cavallo del portapacchi sulla ruota posteriore, i "gitanti" viaggiano affiancati, discorrendo del più e del meno, incuranti di occupare buona parte della carrozzabile.
Per mia indole non uso mai il clacson, non mi sembra corretto, ne ho maturato l'odio nelle città del West Africa dove il clacson è usato tanto quanto l'acceleratore, il freno e la frizione, creando quel frastuono assordante che ti rimane appiccicato addosso come il sudore e le mosche.
Ma so che un giorno di questi, forzando il mio modo di essere, pesterò su quel clacson, lo giuro, e con sadica soddisfazione vedrò disarcionate le loro sacche della merenda… a mio parziale indennizzo per tutti quei ritardi causati dalla loro disinvolta andatura turistica.

E come sempre più spesso mi capita, cerco con il ricordo la salutare normalità dei passati ciclisti, quelli che eravamo noi nell'Altopiano. Niente mountain bike (arriveranno negli anni '80). Niente sellini pressoché interdentali. Niente tutine rosa shocking o verde fastidio, tigrate o marmorizzate. Niente caschetto aerodinamicamente azzardato (ma un design più sobrio, no eh?). Niente cambio Shimano a infiniti rapporti.
Noi cavalcavamo solide biciclette che differivano essenzialmente tra loro dall'asta: con per uomo e senza per donna.
All'imbrunire si accosta la testa della dinamo verso la ruota anteriore che, girando, la carica e la lampadina del fanale si accende. Sul manubrio un campanello che non ulula, non imita la Volante, non sembra un trillo telefonico satellitare, né la sirena dell'ambulanza ma ha il suono tipico da campanello-di-bicicletta, che è una di quelle certezze di cui si ha bisogno per crescere serenamente.
Al manubrio, volendo, si può anche agganciare un seggiolino per portarci a spasso sorelline, figli o nipotini. E qualche ragazzo pinza un pezzetto di cartone con una molletta da bucato contro i raggi in modo che faccia il rumore vagheggiante un motorino… la stessa molletta può poi essere anche usata per impedire che il pantalone si insozzi o peggio si stracci, impigliandosi nella catena. La catena è una sola e se esce dall'ingranaggio non è difficilissimo rimetterla in posizione. Ma, soprattutto, quando uno decide di andare a fare una pedalata fino all'aeroporto oppure spingersi al Laghetto, raggiungere Ghezzabanda o arrivare a Gaggiret, sale in bici senza che lo sfiori l'idea di travestirsi prima da ciclista…
Rimango un po' perplessa: quella passata normalità mi rasserena. Mica che sia un brutto segno?

D.

2 Luglio 2007

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