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Caro MG,
Se i muri del Martini potessero parlare! Ci avranno diviso l'aria da signorini che noi ostentavamo e il vostro colorito linguaggio, la vostra immancabile maretta durante la ricreazione dal nostro posare come Oxfordiani al Museo delle cere ma una cosa ci univa: i gatti. Il nostro eroe, anno scolastico 1968/69, Classe prima e unica sezione A, fu Cesare Molinari che, complici Fontana, Calvino e altri sodali, una mattina introdusse in classe, nascosto sotto il giubbotto, un piccolo felino trovatello che però, fiutando l'aria molto British dell'ambiente circostante e i bocconcini di carne che lo stesso Cesare, Dio solo sa come fece a procurarseli, gli offriva di tanto in tanto, si adeguò e tenne un comportamento più consono all'ambiente e non si produsse in scalmane simili a quelle del suo emulo del piano di sopra. Ma stai a vedere che forse era lo stesso gatto che la mattina si sbafava lo spezzatino di vitello del Liceo e il pomeriggio, cambiata casacca e ricaricato l'appetito, gozzovigliava con gli impuniti del Bottego: insomma, un Micio Jeckyll e Gatto Hyde.
Toh, ci divideva perfino il nome che davamo all'attrezzo per scrivere a china sui fogli Fabriano formato A2 acquistati da Schionato e su cui proiettavamo, fra macchie e sbavature, voi con l'Arch. Aldo Fornaini, noi con il Prof. Tonino Putzolu, cose ortogonali: per voi sanguigni e valorosi gladiatori di cantiere era il graphos, per noi il più elegante normografo da futuri ingegneri.
Era il mai domito antagonismo fra Bottego e Martini. Come dire, cani e gatti!
il C.
(30/12/2004)



Un ricordo dei nostri Insegnanti

Il GATTO E IL PROFESSORE

Per gli studenti, si sa, i professori sono esseri destinati a lasciare tracce indelebili nei ricordi che essi si portano dietro per tutta la vita. Deve essere per questa ragione che gli allievi di tutte le età e, penso, di tutte le razze hanno approcci dissacranti con gli insegnanti che col tempo si trasformano in affetto, stima, rispetto e infine gratitudine. Perfino amicizia. E' successo anche a noi e sempre così sarà. In questo e credo solo in questo, noi geometri del Bottego e gli amici del liceo Martini, eravamo simili. Su tutte le altre cose, profonde differenze ci dividevano: noi, rozzi apprendisti della pala, del piccone e dei rilievi topografici in campagna (Vaccinogeno, ndr) destinati al lavoro duro del cantiere fatto di polvere e di rumore. Loro raffinati apprendisti intellettuali destinati alle professioni più luccicanti ed esclusive fatte di giacca, cravatta e scrivania in banca, in ufficio o in clinica. Era chiaro che non si poteva andare d'accordo come altrettanto chiaro era che dovessimo dare di noi stessi l'immagine dei rudi manovali dai modi spicci e strafottenti mentre loro si sforzavano di cingersi di un'aureola di rispettosa tranquillità e di conformità al sistema fatta di modi raffinati, parlare forbito e complicato tanto da farli apparire gli elitari predestinati delle future classi dirigenti.
Sarà per questa ragione che il piano terra del fabbricato scolastico, il liceo appunto, era perennemente immerso nel silenzio e nella tranquillità, mentre al piano superiore succedevano cose temerarie e clamorose spesso degne di cronaca giornalistica.
I nostri professori, che ricordo quasi tutti, venivano spesso identificati con alcune loro caratteristiche fisiche o comportamentali, e solo di rado indicati per nome, proprio perché l'apparente superbia, la durezza artefatta meticolosamente costruita davanti allo specchio e la dissacrazione appunto, erano per noi matricole del Bottego un marchio da ostentare con orgoglio, un segno di appartenenza al clan, l'identità con il branco (verosimilmente di babbuini anziché di lupi, in quanto più familiari a quelle latitudini).
La prima aula che mi ospitò fu al piano superiore dell'edificio, proprio sopra le arcate del portico d'ingresso principale, quello da dove i liceali accedevano al loro silenzioso tempio del sapere.
Le finestre affacciavano proprio sulla strada in discesa che collegava la via principale, Corso Italia, con l'Alliance Francaise e l'allora recente Hotel Imperial. Eravamo in una trentina, se non ricordo male, e tra questi due allieve: Anna Mandarano, una biondina pacioccona e affabilissima, e Zeudi Araya, una proverbiale bellezza eritrea, riservata e cordiale.. Naturalmente compagne di banco, il primo, quello proprio di fronte alla cattedra, scelto forse per mettere subito in chiaro che loro non avrebbero mai potuto essere complici delle malefatte che gli altri ventotto perpetravano quotidianamente nelle retrovie.
Noi eravamo caratterizzati da livelli di irrequietezza e capacità di disturbo variabili per ognuno. Nel gruppo c'era un certo Marani (Angelo?), famoso in tutta la landa per la sua smaliziata vivacità e spensierata incorreggibilità fatta di incosciente ma simpatica irresponsabilità. Naturalmente il Bottego in quanto istituzione sembrava non avesse alcun potere sul suo anticonformismo così come, credo, non ne avesse avuto il Collegio La Salle. (Di più ha potuto la vita. Quando l'ho incontrato per caso nel '79 per le strade di Tripoli dove entrambi vivevamo per lavoro, mi trovai davanti un uomo allegro e scanzonato, sicuro di sé, dirigente in carriera).
Un giorno aspettavamo in gruppo di entrare a scuola per la lezione pomeridiana di disegno tecnico
(professor Fornaini) quando l'attenzione di questo Marani fu attratta da un gattino, che con inesperta e pericolosa buonafede si aggirava tra noi.
L'amico pensò bene di infilarselo sotto il giubbotto stile avio per portarselo in classe. Ovviamente la notizia rapidissimamente raggiunse tutti prima ancora che si entrasse in aula. Lui fu l'ultimo a entrare e fu accolto da una classe che vociando concitatamente su ciò che stava per accadere causò l'irritazione dell'insegnante il quale dopo vari quanto inutili "state buoni!" e "silenzio, seduti!", sbottò sbattendo una mano sul piano della cattedra.
Strillando con un vigore superiore al nostro trambusto urlò infine: " Silenzioooo!" rimarcando l'ordine con una seconda conclusiva manata sulla scrivania, che credo gli abbia fatto male per qualche mese a seguire. Il gelo calò repentino su tutta la scena, un gelo capace di immobilizzare tutto e tutti, capace perfino di cristallizzare l'aria. Non si udiva, infatti, alcun suono.
Fu a quel punto che il micio entrò in scena da protagonista con tempismo da prim'attore.
Con un "miaooooouuu " acuto e forte prese a saltare da un banco all'altro terrorizzato, alla ricerca di una via di fuga.
Il mondo crollò.
Il professore saltò giù dalla pedana della cattedra correndo qua e là cercando di capire cosa fosse successo e non essendo, in verità, molto alto di statura (chi affettuosamente lo ricorda confermerà) fu subito inghiottito dalla ressa studentesca (altezza media uno e settanta, ottanta) che si creò all'istante. Noi tra il ridere e cercare di individuare la posizione del gatto spostavamo rumorosamente banchi e sedie.
Marani, colto dal panico, era il più attivo nel rincorrere il gatto gridando " prendilo, prendilo, buttalo giù dalla finestra!".
Il caos regnava ormai irrimediabilmente sovrano sul luogo.
Solo parecchi minuti dopo tornò la calma, quando il corpo del reato, cioè il gatto, scomparve nel corridoio e poi chissà dove.
Venuta a mancare definitivamente la prova del misfatto ci calmammo tutti tranne il professore che, in preda ad un tremolio da nervoso incontrollato, prese il registro e mise una nota a tutta la classe, fatto assai raro seppur in anni di contestazione studentesca conclamata e globalizzata.
Roba da prima pagina di cronaca sul quotidiano cittadino, che mi fa ancora ridere a distanza di trent'anni e più, ma che per molto tempo ha rappresentato l'impresa più temeraria che geometra abbia potuto mai immaginare o ricordare e di cui noi siamo andati a lungo orgogliosi per esserne stati testimoni diretti.
Ma il vero eroe dell'avvenimento non fu, come apparentemente potrebbe apparire, il Marani, né il gatto, ma il professor Fornaini il quale un po' per forza e un po' per evidenza, non potendo citare nel resoconto il gatto ormai inesistente, si limitò a scrivere che la classe era indisciplinata.
Era il primo anno per noi di disegno tecnico e questo fatto fu un modo di affrontare la materia e l'Insegnante non certo ortodosso, ma fu anche il primo gesto di affetto del professor, anzi dell'Architetto Fornaini, nei nostri confronti. Infatti, dopo i primi giorni successivi all'episodio caratterizzati da una sorta di spudorato risentimento nei suoi confronti, il nostro rapporto con Lui divenne sempre più forte, consolidato dalla Sua grande esperienza della materia.
Esperienza che ci trasmise senza riserve fino al traguardo della capacità e dell'abilità tecnica, che in tempi di assoluta manualità aveva successo solo grazie alla presenza di docenti di valore.
Conservo ancora il famoso "graphos" (una specie di penna stilografica per l'utilizzo della china) con relativi pennini. Naturalmente non serve più a niente in tempi di computer, plotter eccetera ma mi piace tenerlo come una sorta di custode delle mie esperienza passate.
Ecco, Asmara, l'Eritrea e gli Eritrei ci hanno fatto dono di queste e di infinite altre indimenticabili emozioni che hanno condito tutta la parte migliore della nostra giovinezza.
Esattamente come il sale fa per il cibo.
Questo modestissimo ricordo è la mia bottiglia di champagne per Capo d'anno, da offrire al Chichingiolo perché possa donare una piccola pausa di allegria e possa stimolare in ognuno i ricordi più divertenti di quegli anni, da condividere con tutti.
Senza ovviamente dimenticarci di quei fratelli eritrei (come diversamente definire persone che sono legate a noi dagli stessi luoghi di nascita?), che mi risulta, stanno vivendo anni di speranze deluse e di sogni di libertà repressi e irrealizzati.
MG

30 Dicembre 2004



PICCOLO, VECCHIO CLOWN

Quando ero piccola, nella zona dove abitavo, ricordo che si aggirava un personaggio singolarissimo. Era un uomo anziano, bassissimo - il metro e mezzo lo raggiungeva forse a malapena - dall'ossatura molto robusta, con spalle eccezionalmente larghe, da lottatore. La carnagione era nera come l'ebano, sulla testa pelata e lucida era posato uno strano berretto liso che raramente si toglieva, e sotto il naso schiacciato si apriva una bocca totalmente sdentata, che quando sorrideva metteva in mostra la lingua rosea. Gli occhietti piccolissimi ed infossati erano straordinariamente vivaci, con un non so che di folle che però non faceva paura, semmai causava allegria.
Circolava voce che fosse originario del Galla-Sidamo (od Oromo come si direbbe oggi), ma erano informazioni vaghe e imprecise, né si sapeva di che vivesse. Gli adulti, passando, gli davano qualche spicciolo anche se non chiedeva apertamente l'elemosina. Compariva saltuariamente e all'improvviso, sul tardo pomeriggio, camminando con piglio militaresco, facendo dei passi stranamente lunghi per quelle gambette così corte e storte. E, come il pifferaio magico, dietro di lui c'era sempre un codazzo di bambini vocianti. In che cosa consisteva la peculiarità di questo buffo vecchietto? Nel fatto che all'improvviso si metteva a ballare, con piroette e mezzi giri, battendo alternativamente i calcagni per terra, seguendo un ritmo tutto suo, a volte vocalizzato con strani suoni gutturali, accompagnato dal gesticolare delle mani. A conclusione di questa strana danza, con un ghigno divertito sul viso, metteva una mano sotto l'ascella e aprendo e chiudendo velocemente il braccio creava quel tipico e comico suono che faceva scoppiare a ridere i bambini presenti. Se qualcuno di noi aveva disponibile un "carrarmato", cioé 25 centesimi, l'ometto, con grande gioia di tutti, riprendeva a danzare.
Doveva abitare da quelle parti, ma non ho mai saputo dove, so che scompariva sempre dietro una traversa in fondo al Viale Marconi, là dove c'era la grossa cisterna d'acqua. Non sempre questo strano personaggio era in vena di dare spettacolo e quando si adirava incominciava ad agitarsi, facendo girare vorticosamente le braccia, come pale al vento, cosa che ancora più aumentava il piacere un po' crudele di noi bambini che, privi del senso della misura, non capivamo che il poveretto voleva essere semplicemente lasciato in pace. Qualche volta intervenivano i passanti che ci redarguivano e ci disperdevano, minacciando di riferire ai nostri genitori se non lo lasciavamo in pace, ma nello sguardo di alcuni di questi "grandi" e nei loro sorrisi si indovinava, celata a stento, la stessa ilarità che c'era in noi piccoli spettatori.
E così, sotto il cielo turchino, anziché sotto un tendone da circo, noi bambini avevamo il nostro singolarissimo clown, la cui "performance", se commisurata all'allegria ed alle risate che provocava, nulla davvero aveva da invidiare a quella di professionisti patentati.

Elvira Romano
Febbraio 2005

7 Febbraio 2005



EASY RIDER

La Kagnew Station di Asmara ha sempre esercitato su di me, per tutto il periodo della mia permanenza lì, un fascino incredibile. Fascino condiviso da moltissimi di noi asmarini visto che la diaspora ha portato molti nostri conterranei a stabilirsi e vivere negli Stati Uniti anziché in Italia o altrove. Del resto era normale, noi tutti nelle nostre famiglie sentivamo parlare della Patria, l'Italia, sicuramente in toni nostalgici ma anche indubbiamente fantastici dato che molti dei nostri genitori mancavano da "casa" già da parecchi anni.
Quel pezzo di America invece era li, a portata di mano, tangibile anche se discretamente riservata e proibita ai più. Tutta da scoprire, da esplorare e da capire certamente, ma anche entusiasmante e irresistibilmente attraente. Era come una scatola magica da cui uscivano in continuazione mode, novità, atteggiamenti e comportamenti che altrimenti avrebbero impiegato i tempi non sempre regolari e brevi della stampa italiana per raggiungerci, informarci e ricordarci che dopo tutto eravamo, chi più e chi meno, originari della vecchia Europa.
Il film Easy Rider, culto della mia generazione, lo vidi proprio al cinema della Kagnew (Kagnew e basta, come affettuosamente veniva definita la struttura) dove andai con un gruppetto di amici che non ricordo, tutti accompagnati dal maestro di Judo che aveva da poco iniziato il corso che si teneva nel salone del mitico CUA, l'anno era il 1969 o forse '70.
Fu la rivelazione per me e credo, per molti miei coetanei.
Diventare, o meglio atteggiarsi, da quel momento in poi, a giovani hippy ribelli e anticonformisti fu tutt'uno. Crebbero chiome di tutti i tipi, anche qualche barba, jeans sdruciti senza mai superare i limiti del decoro piccolo borghese, magliette variopinte e cinturoni tanto sproporzionati quanto scomodi divennero la nostra uniforme, che però acquisiva valore aggiunto solo con la disponibilità del mezzo meccanico simbolo di libertà per eccellenza: la moto.
E qui assistemmo al passaggio epocale dalla moto post bellica ancora fortemente ispirata alla essenzialità e alla rudezza delle forme ma dalla robustezza e dalla resistenza inconfutabili anche se scomodissime e soprattutto lente a quella superaccessoriata e luccicante dei primi anni settanta. Fino a quel momento il contachilometri più evoluto, standard della velocità di riferimento segnava 130 forse 150 chilometri totalmente teorici e assolutamente illusori.
All'improvviso arrivarono (grazie alla Kagnew) le moto giapponesi tutte cromate con due specchietti retrovisori (si fa per dire! Io non sono mai riuscito a vedere niente a meno di allungare il collo, piegare la testa o contorcere il busto al pari di uno yogi indiano), le frecce direzionali che lampeggiavano su moto silenziose, pluricilindriche e soprattutto velocissime: il contachilometri più racchietto segnava 180 chilometri l'ora. Roba da impazzire. Chi non ricorda le parate spontanee che vanitosamente, dal nulla, si formavano al La Salle il sabato pomeriggio o in corso Italia la domenica mattina?
E allora ecco che la fantasia individuale, rotte le catene di un conformismo ormai crepuscolare, si librava in alto e raggiungeva il virtuosismo casereccio e provinciale delle modifiche meccaniche o estetiche "fai da te". Via il silenziatore del tubo o dei tubi di scappamento, manubri piccoli sostituiti con manubri grandi e viceversa (alla Easy Rider per intenderci), carburatori maggiorati, serbatoi rimpiccioliti e parafanghi asportati per inseguire il vento e il mito alla maggior velocità possibile, caschi variopinti come della tavolozze da pittore corredati da visiere autenticamente "spaziali" (il mio lo conservo ancora).
A quel punto persino le vecchie moto inglesi e italiane, risalenti al periodo bellico o giù di lì, della polizia furono pericolosamente surclassate. Come dire agli aspiranti hippies motociclisti nostrani: se volete, osate l'infrazione. Potete batterli! Qualcuno ci provò.
Arrivò infine Lei. Sì, Lei, perché credo fosse talmente bella da essere subito nell'immaginario motoclistico, associata alla Donna. La più grande e irresistibile delle tentazioni maschili. Possedere Lei era la stessa cosa che possedere la più bella donna del villaggio: persino bionda dato che il colore di serie del serbatoio era giallo!
Era la Ducati Scambler, cosi perfetta nella sua apparente essenzialità, cosi rudemente elegante nel suo stile vagamente country, ma soprattutto con quel suo respiro vigoroso, baritonale e autenticamente potente.
Me ne innamorai subito e sicuramente fu un colpo di fulmine per i più, anche se gli eletti (pochi, ma ce n'erano anche lì) si potevano permettere il lusso di possedere le supermoto dai 500 centimetri cubici in su di cilindrata, la più desiderata, la più agognata era Lei.
Sono certo che è stato il mio amore eterno. Tant'è che arrivato in Italia, dopo un anno o due (giusto il tempo di acclimatarmi, motociclisticamente parlando) riuscì a comprare una splendida Ducati Scrambler 450 con cui scorrazzavo per Roma osando persino andarci in vacanza in Calabria e girovagare in lungo e in largo per le forre silane tra un bagno nello Ionio e un altro nel Tirreno. Quasi come scendere dall'altopiano al mare e viceversa.
Solo in quella occasione credo di aver provato delle sensazioni provate prima solo ad Asmara.
Ora tanto per dare una scrollatina al torpore mistico-letargico che caratterizza questo sito da un po' di tempo a questa parte, propongo un esercizio di memoria: elenco tutte le moto del 1970 di cui mi ricordo e che bazzicavano al CUA e dintorni. Ai più bravi il compito di affiancare ad esse i nomi dei rispettivi proprietari. Avrete cosi un argomento faceto di cui parlare al prossimo raduno.

Morini 50 o forse 100cc Rossa (un esemplare)
Ducati Scrambler 100 cc Gialla (due esemplari)
Gilera 124 Rossa (credo un esemplare)
Gilera 124 Grigia (due esemplari)
Gilera 124 Verde (un esemplare)
Gilera 124 SS Nero e argento (due esemplari)
Honda 125 Avorio (un esemplare)
Honda 175 Blu (un esemplare)
Yamaha 250 Fucsia (un esemplare)
Suzuky 350, forse 500, Blu raffreddata ad acqua. Gli esperti sanno di cosa parlo (un esemplare)
Suzuky 750 four Blu (un esemplare)

In bocca al lupo!
MG

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Vroom! Sfida lanciata, come un chilometro da fermo. Vediamo chi fa la sgommata più veloce ...
il C.

9 Marzo 2005

* * * * *

Le motociclette in Eritrea

Caro MG,
non posso rispondere alle tue domande perché in quel periodo non più residente all’Asmara, vorrei però precisare alcune cose circa il motociclismo in Eritrea.
Le prime motociclette “moderne” arrivarono all’Asmara intorno agli anni ’54 – ’56, furono alcune Williams bicilindriche con motore a due tempi da 250 c.c. Risultarono subito abbastanza veloci e con una buona ripresa, essendo appunto dotate di motori a due tempi. Ma la grand’ammirazione la destarono, da prima, due stupende BSA Gold Star. Ambedue con motore monocilindro a quattro tempi; una l'aveva da 350c.c e l’altra da 500c.c. Bellissime! Piene di cromature e con un lungo sellino. Furono subito la passione di tutti noi abituati ai vecchi R, o S o VV Guzzi o a qualche vecchia BSA rigida, ex militare o, forse, ad un glorioso Gilera quattro bulloni.
Delle due BSA, una apparteneva ad un ragazzo statunitense di base a Radio Marina, e l’altra era di Mario Pace, ottimo tecnico e proprietario di un’officina meccanica specializzata in motociclette. Queste due moto sulla pista di Gura fecero segnare la velocità massima di 165 e 180 km/h, rispettivamente.
Allora, all’Asmara vi erano ancora buoni piloti, e uno di questi era un certo Casarini (o Casarin non ricordo con esattezza il cognome). Possedeva una vecchia Benelli 250 c.c. da corsa, con testa Velox in alluminio e valvole a bagno d’olio. Questa vecchia Benelli, anno 1939, superava la velocità di 185 Km/h sempre sulla pista di Gura, sul chilometro lanciato. Nel 1957 arrivò anche un RUMI 125, bicilindrico a due tempi. Stupendo! Telaio grigio perla con serbatoio rosso. C’innamorammo all’istante.
Arrivò poi, nel 1958, una fantastica Norton Dominator, bicilindrica, da 600cc., la possedeva l’Avv. Angelo Maiorani, Stupendo esempio d’Italiano, grande orientalista, che fece amare a molti di noi la lingua del deserto. Indimenticabili le sue lezioni di lingua araba e la sua capacità di interessare i suoi ascoltatori. Fu ucciso vilmente da una banda di scifta nella sua piantagione di Ghinda. (Desidererei parlare più a lungo di questo Signore; lo faro’ in altra occasione, se FDL lo permetterà.) [Restiamo in attesa del tuo scritto, Emilio. Qui conduce Lord Kikki, fdl è un mezzo Capo-rale di giornata. n.d.C.].
Seguirono tre MV Agusta, 175 cc. Due nere con serbatoio rosso e una tutta rossa; anche queste molto belle, con la leva del cambio a bilanciere posta a destra. Ancora, sulle strade, alla fine del 1950, sfrecciavano DKW bicilindriche a due tempi (molto veloci) alcune NSU 125 e un paio di 250 entrambe con telai stampati, sospensione anteriore a bracci oscillanti, posteriormente monoammortizzatore centrale (avveniristico) e cambio a sinistra, come le attuali. Già tutte molto belle, con cromature, specchietti retrovisori e dalle buone prestazioni velocistiche.
In quel periodo, all’Asmara, tra la polizia stradale, vi era un certo Ghidanè. Buon motociclista e già graduato della PAI. Inizialmente aveva in dotazione una vecchia BSA militare, poi gli fu consegnata una nuova moto inglese. Una Matchless 500 con forcella anteriore telescopica. Una delle gare preferite da alcuni di noi (i più monelli) era, notte tempo, aspettare detto Ghidane e con le ns. moto dotate di tromboncino, in sostituzione della regolare marmitta, sfrecciare per le strade d’Asmara a tutta manetta e farci inseguire dal buon Ghidanè che, il mattino dopo, inevitabilmente, ci aspettava davanti al Bottego per minacciare il ritiro definitivo della nostra patente di guida. Credo ci volesse bene e che, da grande motociclista, in cuor suo amasse le gare notturne tra le viuzze di Gaggiret e Godaif o tra le strade dell’Hamasien.
Oggi, ultrasessantenne, con la bella stagione, amo ancora percorrere alcune strade tra le nostre montagne alpine, in sella ad una desmodromica Ducati 749 S, rossa fuoco.
Buon polso destro.

Emilio (Oceania)

13 Marzo 2005


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