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Riceviamo questi due pezzi della nostra inviata molto speciale la quale questa volta rivisita le gite, remote e recenti. Aggiunge Daniela: "Nel 1965/66 circa avevano fatto una stupenda gita anche i geometri del Bottego. Accompagnati da Storelli, erano andati in Dancalia: c´è una penna che ce la vuole raccontare?". A questo proposito, ci auguriamo che qualcuno raccolga sia la sfida che la penna.

LE GITE
di Daniela Toti

Anno 1969. Eravamo finalmente in quarta, l'anno della nostra maturità e l’usanza ci permetteva di dare l’addio al ciclo di studi con una gita “didattica”. Fu una cosa memorabile che, se forse fu anche una delle cause che mi costarono l’anno scolastico, rimane un ricordo bellissimo ed importante. Il programma era di sette giorni per il seguente itinerario: Asmara / Axum / Gondar / Bahar Dar / Gondar / Axum / Asmara.
Risultando scarsità di fondi nella cassa scolastica - e ciò avrebbe determinato quote individuali di partecipazione al di là della portata di molte tasche - ci producemmo entusiasticamente in varie attività: organizzammo partite sportive e tè danzanti con ingresso a pagamento, quindi ci lanciammo in quella che oggi si chiamerebbe “campagna per la sponsorizzazione” e raggiungemmo la somma che permise la partecipazione di tutti i “maturandi” con una spesa minima. Felici del risultato ottenuto, elettrizzati dalla prospettiva di una settimana di gita, prendemmo possesso del pullman. Per sette giorni quell’autobus, tracimante allegria, risate, chiacchiere, canzoni piú o meno stonate e barzellette piú o meno censurate, ci condusse in posti che erano nuovi per la maggior parte di noi. Asmara, Adi Ugri, Adi Quala, tagliando il Mareb, prima di Adua si prende la destra, e finalmente Axum, prima tappa. Imparammo che per molto tempo Axum fu considerata in Etiopia la “madre di tutte le città”, la “Città Sacra”, nella quale furono incoronati gli imperatori d’Etiopia.
Capitale di un antico, florido regno, la leggenda vuole si trattasse del Regno della regina di Saba, chiamata Makedà. Come scrive San Matteo: “La regina del sud ... che venne dall’estremità della terra per conoscere la saggezza del Re Salomone”. Gli imperatori etiopici facevano risalire la loro origine alla regina di Saba che, seguita dalle sue carovane di schiavi e cammelli carichi di doni preziosi, avorio, oro, incenso e mirra, andava a rendere omaggio al Re Salomone. Giunta a Gerusalemme, dopo un viaggio durato tre anni, si presentò a Salomone in tutto lo splendore della sua bellezza e ... a questo punto la leggenda narra che Salomone sposò la bella regina, dal matrimonio nacque un figlio, Menelik, dal quale discesero tutti i Re d’Etiopia, discendenti quindi anche di Salomone, il Re saggio. Visitammo gli obelischi di pietra, stele monolitiche che si trovano attorno alla città, alcune delle quali alte oltre 30 metri, testimonianza della grande civiltà axumita il cui sviluppo, nonostante le leggende, non è stato ancora chiaramente definito.
Ma quando visitai lo Yemen, anni più tardi, venni a sapere che la leggenda araba è però di diverso avviso e dice che il regno di Saba si trovava nell’attuale Yemen del Nord. Proseguimmo quindi per il lungo viaggio che ci portò a Gondar, passando da Enda Sellassié, famosa, per me, solo per avere dato i natali a quell’ascari Kebbedé della canzone che cantavano, con la loro bella voce, zio Carlo e Papà. "Era nata ad Anghillà, Etuanesh / era figlia di Fatma Ambanesh / ancor bambina fu sposata a Kebbedé / un ascari di Enda Sellassiè ...". Gondar ed i suoi castelli, che visitammo interessati. Ci dissero che poco si sa di certo circa le origini e le vicende dei “Castelli di Gondar”, ma la tradizione locale li fa risalire al negus Fasiladas il Grande (1632-67). I costruttori sareb­bero stati portoghesi, levantini e indiani o in ogni caso indi­geni da loro istruiti. Certo é che le piú antiche costruzioni del periodo portoghese servirono da modello. Furono i missio­nari gesuiti, tra i quali Padre Pais e molti italiani, a trovare le cave di calce e ad insegnare agli Amara l’arte dei laterizi e della costruzione dell’arco e della volta.
Il viaggio proseguì per Bahr Dar (Porta sul lago), sul Lago Tana, dove ci saremmo fermati tre giorni. Eravamo alloggiati in riva al lago, le cui acque erano pigramente solcate dai tanquà, leggere canoe in papiro. L’aria era dolce, profumata dai fiori di plumeria (frangi­pane), con i quali noi ragazze ornammo civettuole i capelli. Il posto era davvero bello. Ricordo che ci fu chi propose di sabotare il pullman per prolungare quel soggiorno d’incanto. Ma eravamo bravi ragazzi, impudenti solo a parole, e non se ne fece niente. Il fiume Abbai o Nilo Azzurro nasce nei monti dell’Agaumeder e sbocca in un lungo delta nel Lago Tana. Ne riesce a Bahr Dar in direzione Sud e piega verso Est-Sud-Est, descrivendo un ampio arco attorno al massiccio montano del Goggiam, quindi si dirige verso Nord-Ovest per confluire nel Nilo a Khartoum, nel Sudan, dopo un percorso di 1.400 chilometri. Ad una trentina di chilometri dopo la sua uscita dal Lago Tana, il Nilo Azzurro si allarga a quasi 500 metri e, dividendosi in quattro correnti principali, precipita con un salto di 45 metri in una stretta gola, formando le stupende cascate Tissisat (o Tis Abbai), descritte dai viaggiatori come tra le piú belle del mondo. Le andammo a visitare e fu uno spettacolo tale che posso chiudere gli occhi e rivederle ancora. Il pullman ci aveva portati fino ai piedi di una collinetta. Il proseguimento a piedi era obbligato da un sentiero che si arrampicava e ci doveva condurre oltre la collina. Ricordo anche un ponticello su un baratro abbastanza profondo. Ma avevamo 18 anni ed eravamo in gita scolastica. Non si badava tanto alla natura quanto ai frizzi e lazzi tra noi compagni in libertà. Poi il sentiero faceva una svolta quasi a gomito ed ecco: una maestosità inenarrabile. Quella volta l’impatto con la bellezza rese muti 60 ragazzi vocianti e giocosi. Ricordo di avere trattenuto il respiro: era bellissimo, inaspettato, solenne e gli occhi volevano imprimere quello spettacolo indelebilmente nella memoria. Solo dopo ho udito il fragore assordante delle cascate: era proprio come quando guardi i fuochi d’artificio, prima vedi la stella che sboccia come un fiore variopinto e solo poi senti il botto. Nel frattempo, avevo vissuto un attimo di eternità.

QUELLI DEL 1951

Uscito sul Mai Taclì tre anni fa, il pezzo che segue viene qui riproposto per invogliare tutti i partecipanti a quella gita sul "Burchiello" a farsi vivi sul Kikki. Dove siete finiti, si chiede Daniela?

L’anno scorso (2000, n.d.C.) Gianfranco (Granara) e Giampaolo (Ukmar), di ritorno dalla Toscana, sono passati a trovarmi e mi hanno raccontato di aver partecipato, da quarantanovenni abusivi, ad una riunione di cinquantenni asmarini. Avevamo allora preso lo spunto di fare, noi del 1951, la riunione dei cinquantenni nel 2001.
Nella corsa incalzante del mio quotidiano (ma cosa rincorro non l’ho mai ben capito), verso febbraio realizzo che ci siamo, che questo è l’anno in cui compio i miei primi 50 anni. Che interessantissimo ventesimo di millennio! Memore di quanto programmato con Gianfranco e Giampaolo, decido di tradurre in realtà la progettata riunione di “quelli del 1951”.
Cerco la foto delle elementari: ne trovo tre su cinque, e comincio a riportare alla memoria i nomi, aiutata dai volti. Riconosco quasi tutti, anche se un po’ a fatica.
Comincia la ricerca. All’inizio contatto chi ho visto più recentemente. Poi un numero di telefono, un’indicazione di città, gli indirizzi di Mai Tacli dove posso trovare, se non loro, forse qualche loro parente, e poi le Pagine Bianche d’Internet ...
Vorrei che l’incontro fosse speciale, da ricordare: penso ad una gita sul Brenta con il Burchiello, visitando le Ville Venete da Venezia a Padova. Ci dedico qualche sabato pomeriggio, telefonando dappertutto (me lo consente teleconomy-no-stop). Dapprima la partecipazione ha, come requisito, l’essere del 1951. Poi gli inevitabili infiltrati: il primo è Luciano (Ciaglia) che afferma che lui ci sarà in ogni caso con la sua Sofia (Paterlini). Allora iscrivo anche Vanni (Pelizzari), al quale farà solo piacere essere scambiato per uno del 1951 … un po’ meno al mio Marco, (che poi mi avvertirà che non parteciperà alla prossima riunione!), poi Marilena Brusinelli dice che verrà con il marito Angelo, perché è dalla quinta elementare che non ci vede, quindi ha bisogno di una spalla amica. Sandra Mezzedimi sarà accompagnata dal marito Francesco, e Ileana De Faveri sarà la nostra “più giovane”. Paola Comini verrà con la mamma (evergreen), io chiedo a Loretta Toti, che abita a Padova, se le farebbe piacere unirsi a noi. Tanti altri sono contattati, alcuni purtroppo all’ultimo momento devono rinunciare, come Grazia Pastore, Lia Mara Sgobbi, Elena Renfrew, Lucio Lambertucci, Paolo Liberati, Roberto Erriquez, Antonietta Picca, Lidia Bruni, Munira Alamin …
E´ il giorno stabilito: appuntamento davanti a Villa Manin a Stra. Io sono con Livia Margotti, Gianpaolo Ukmar, Gianfranco Granara, e naturalmente Vanni e Marco. Arrivano Rosanna Sulbati e Ileana. Ci sono anche Sonia Ertola, Antonio Lobbia, poi Tata e Vera Ausilio con Sonia Turco. Riconosco Marilena, dopo 40 anni! Il pullman intanto, passando dall’albergo, ha caricato giá Sandra, Paola, Alem Lodetti, Lucia Vendetti, Franca Gnemmi, Claudia Ballardini e Catherine Lanier Marazzani. Nella foga degli abbracci (ci riconosciamo subito tutti!) abbracciamo a turno anche la guida, una disorientata e simpatica archeologa, che, per sfuggire a tanta foga, si rifugia prontamente in fondo al pullman che ci porterà a Venezia. Per tutta la giornata tenterà, con grande ma incompresa competenza, di illustrarci dipinti, fatti storici e personaggi … vano tentativo perché noi chiacchieriamo ininterrottamente e, invece di scattare le foto alle opere d’arte, ci fotografiamo tra noi. Illustrerà tutta la storia delle chiuse che permettono la navigabilità sul Brenta da molti decenni. Noi intanto forse stiamo ricordando Massaua. Ci darà i dettagli sulle famiglie e le origini patrizie degli abitanti delle ville visitate, dei pittori che le decorarono, degli architetti che le costruirono. Noi siamo occupati ad informarci su conoscenti comuni.
Ci dovrà richiamare ogni volta che il battello riparte perché il nostro è proprio il gruppo più indisciplinato . ma alla fine confesserà che anche la sua mamma viene dalla Libia, per cui queste riunioni le sono familiari e, soprattutto, ne capisce l’unicità della natura. La giornata scorre troppo veloce. Chiedo al marito di Sandra cosa pensa “da esterno” di questi indisciplinati ragazzacci e lui mi dice una cosa bellissima: “Siete veri, senza ornamenti di facciata. Non sentite la necessità di apparire ma solo quella di essere. Vi appartiene una schiettezza difficile da trovare.”
Verso le sei di sera la gita sarebbe finita. Siamo seduti, in verità un po’ stanchi, dopo un’incursione nel labirinto di Villa Manin. Alem riaccende la nostra vitalità: “Ferme là, cinquantenni! Adesso sì che vi fotografo in tutta la vostra vera bellezza, non come stamattina, tutte splendide e tirate da trentenni!” ( … a proposito di facciata … ).
Sofia aveva proposto di terminare la giornata al ristorante di Carlo Leoni, speciale cucina eritrea. L’adesione è stata pressoché unanime. Da Carlo ci raggiungono Renato Cammarata, Aldo Turco e Mario Castrignano. Ci sono anche la mamma di Sonia Ertola e il fratello Giancarlo. Aspettando Angelo Cirigottis, mangiando le delizie che ci preparano le donne della famiglia di Carlo, le chiacchiere continuano incessantemente. Ma quanto abbiamo da dirci, ma quanto si ride, ma dove sono ‘sti 50 anni, che non li sento per niente … La giornata si concluderà verso la mezzanotte quando, nostro malgrado, siamo costretti a separarci.
Mi chiedono di ripetere l’incontro: c’è chi suggerisce di fare nuovamente anche la gita, tanto, dice, di tutto ciò che c’era da vedere non siamo riusciti a vedere proprio niente.
Siamo tutti di Asmara. Siamo fatti così!


BAAL BELES
ll venditore di fichidindia

Danila Boattini e i venditori di beles sulla Asmara - Massaua (Maggio 2004)

Salivano a gruppi o singolarmente dal Dorfu, con gli zembil colmi di fichidindia, appesi ai due lati del lungo bastone robusto, poggiato sulle spalle. Spesso, oltre ai due cesti, ce n'era un terzo sulla testa e ogni volta mi chiedevo come avrebbe fatto il "baal beles" a tirare giù il tutto senza incidenti. Era anche incredibile la falcata lunga ed elastica, mantenuta con una precisione ritmica, degna del miglior metronomo, di quelle gambe magre che viste da vicino erano tutte martoriate da tagli e graffi, e anche i piedi, impolverati e a mala pena coperti da sandali di corda (oppure fatti con i vecchi copertoni di camion, n.d.C.), mostravano i segni numerosi lasciati dalle spine.
Erano, li ricordate?, per la maggior parte giovani, alcuni poco più che adolescenti, che, appena le grandi piogge portavano a maturazione quei frutti, sciamavano per le strade di Asmara, al grido di "fichidindia, bella, matura, fresca".
Una volta pattuito il prezzo, con l'inevitabile tira e molla senza il quale nessuna transazione che si rispetti poteva essere conclusa, si passava a scegliere quelli di colore giallo-arancio, presumibilmente i più maturi. Con un coltellino affilato la buccia del ficodindia veniva staccata con un taglio di lungo e poi due alle estremità e il frutto polposo, così esposto, veniva prontamente trasferito nel vassoio di casa. Qualche volta il venditore, prendendo l'iniziativa, quasi di soppiatto, tentava di rifilarne un paio di quelli con la buccia verde e puntualmente veniva redarguito bruscamente dalla donna di servizio che minacciava di non pagarglieli. Succedeva allora che, per rabbonirla, il giovane le offrisse un frutto gratis, e tutto tornava alla normalità.
Quando il venditore prendeva in mano il ficodindia, incurante delle spine, meravigliata ed incuriosita, guardavo attentamente quel viso imberbe, allo scopo di indovinare se dietro quella facciata impassibile si nascondeva la stoica accettazione del dolore oppure se si trattava più semplicemente di insensibilità sviluppata nel tempo grazie alla callosità e all'indurimento delle mani. Forse erano vere entrambe le ipotesi, comunque non sono mai riuscita a risolvere il mistero e le rare volte che ho tentato di ottenere una spiegazione ho ricevuto delle risposte così evasive e laconiche che alla fine ci ho rinunciato.
Personalmente non sono mai stata attratta particolarmente dal gusto dei fichidindia, però mi piaceva immensamente l'atmosfera festaiola che si creava quando comparivano per le strade e mi divertiva soprattutto la golosità dei bambini del vicinato che si sbrodolavano allegramente addentandone la polpa succosa.
Sembra incredibile che oggigiorno questi frutti, che scandivano con il loro arrivo la fine delle piogge, si vedano molto raramente; il motivo? nessuno li va a raccogliere, quindi il rimpianto per quelle scorpacciate non è solo di chi sta lontano ... E così anche l'umile e povero "baal beles", chi l'avrebbe mai detto!, può essere ufficialmente aggiunto alla lunga lista di cose o persone che si consideravano scontate e invece non lo erano ...

Elvira Romano
Agosto 2004


Un perizoma, il Prof. Mattei, l'innocenza, le spigolature di Sabri e le domande esistenziali dello Shifta

Me ne andavo una mattina a … pescare,
quando vidi Sabri uscir dal mare …
recitava una patriottica poesia, da me riveduta e corretta per l' occasione.

…quando eravamo giovanotti, non perdevamo occasione per dare una sbirciata sotto le gonne delle incaute fanciulle, che ignare dell'osservatore, avevano accavallato le gambe, mostrando innocentemente un lembo di coscia.
Cosa dire ora che ci viene mostrato tutto senza reticenza alcuna? Le attrici fanno i calendari castigati, dicono loro, e forse l'unica cosa che non si vede sono le tonsille.….Era molto più seducente una donna che non ti faceva vedere niente oppure mostrava, con studiata innocenza, poco? Quel poco faceva volare la fantasia, sognando mete irraggiungibili o, presagendo paradisiache situazioni che immancabilmente terminavano con l' esclamazione: "Minchia quanto è bona"

… Sabri è una stanga di cm 180, con lunghi capelli corvini che gli scendono giù per la schiena, ha due occhi di 4° misura abbondante avvolte o meglio strette da uno straccetto color panna, indossa un perizoma (e se lo può permettere) color nero, che pare non copra-nulla, anzi evidenzia il nascosto.

…Il perizoma mi ricorda il prof. di lettere Mattei, un residuato bellico che, noi cattivi studenti, avevamo soprannominato "il pirata" per via della benda all'occhio ed una gamba di legno, con aggiunta di sordità evidente.

…..Rivolgendosi verso il mare, mostrava i due emisferi chiappacei uniti, ma che uniti, il filo interdentale d'unione spariva nel bel mezzo di questi due generosi e ben fatti emisferi e a me sorse un atroce dubbio:
Cosa sarebbe successo se la Sabri, nella penombra della cabina, avesse indossato il perizoma al contrario?
lo Shifta

SELACI & TELEOSTEI
(ovvero Individui appartenenti all'ordine degli Squali & Acciughe)
a cura di Daniela Toti, con Riccardo Pizzimento

Gli Sharks furoreggiavano. Si erano affermati nel basket, nel look, nello strappo con il con-venzionale. Li identificavo un po' nei "Mods", quelli cantati da Ricky Shane, anche se loro, invece, si identificavano più nel modello americano che nei modelli che il Regno Unito proponeva in quegli anni di grande spaccatura con gli schemi classici. E non avevano giubbotti e catene, ma solo genuina aria spavalda e fascino selvaggio.
(Li ricordo seduti in fila sul marciapiede della Vigilanza Notturna, quella dietro al Nyala, all'angolo di 45º tra la via di casa mia e quella dietro, con un macchinone americano par-cheggiato nelle vicinanze … e io, verdissima e timidissima teenager, che mi imbarazzavo ai loro lazzi, che non riuscivo a camminare, scivolando lateralmente dai tacchi, con grande goffaggine …)
Non c'erano gli equivalenti dei "Rockets" in contrapposizione agli "Sharks". Per quanto possa ricordare, gli "Sharks" regnavano incontrastati. Fino al giorno in cui una vacanza a Gurgussum fece nascere l'idea ai Nostri. Si trattava di un gruppo che di sport ne masticava poco. Avevano un'aria più impunita che spavalda, un fascino più domestico che selvaggio. E la scelta del nome fu in antitesi: "Los Acciugas".
Non mi intimidivano, i "L. A.". Erano i miei grandi e cari amici e l'arruolarmi nella squadra delle loro fan fu naturale e automatico.
Il varo del gruppo fu programmato durante una vacanza a Massaua organizzata dalle due compagnie. I "L. A." fecero le cose in grande. Si fecero fare la divisa, assegnarono la carica di mascotte ad un bel esemplare di scimmia zanzibarina di nome Poker, e scesero a Gurgussum, provvisti anche di una epica zattera, che avrebbe conferito quell'aura corsara che-non-guasta-mai …
Ho chiesto collaborazione, per ricordare più dettagli, e l'aiuto mi è arrivato dal L.A., Riccardo Pizzimento, detto Zizzo, che dall'Australia ci racconta:

Los Acciugas!
Che tempi! Il futuro allora era tutto rosa e … rosso come la tenda che Renzo De Ponti, Giulio Biot e Costantino Paolino, tre dei famosi Sharks, riuscirono a procurasi da degli amici Americani della Kagnew Station. Non era proprio una tenda ma un paracadute dei militari.
Chi erano gli Sharks? Gli Sharks erano: Sergio Buonora, che sapeva tutto di meccanica. Aveva una giardinetta verde con motore e la marmitta modificati così tanto che quando partiva da dietro il Nyala lo si sentiva fino alla Latteria, poi c'era Gianfranco Piterá (mi ricordo che aveva il terrore di perdere i capelli ed invidiava i capelli di Gilo Sgobbi, che erano a due dita dalle sopraciglia: l'unico attacco più basso credo fosse quello di Brando Bacci), poi Ennio Thá, con il ciuffo a banana come in West Side Story, atteggiamento da cow-boy e sorriso trasversale, a mezza bocca, con delle trovate che non ti dico. C'era Giulio Biot, che quando facevano l'appello e chiamavano il suo nome si alzava facendo strisciare rumorosamente il seggiolino per terra e poi sbattendo i tacchi degli stivaletti, con il petto infuori, si metteva sull'attenti e quasi urlava "presente!"; la Prof.ssa Falletta lo guardava da dietro gli occhiali da sole con un sorriso bonario. L'altro era Paolino Costantino, un caro ragazzo ma di umore dai cambiamenti repentini, non mi sono mai spiegato il perché, anche lui grandissimo ammiratore degli Americani, camminata gongolante dal banco alla cattedra e ritorno, era molto bravo in inglese e lo parlava sempre con quel po' di accento ... Americano. Non dimentichiamo Renzo De Ponti: con lui e Chittó abbiamo fatto tantissime cavalcate alle montagne rosse, era, e forse lo è ancora (ha un business in subacqueo) agilissimo. Lui fu quello che, quando andammo a Massaua, portò una attrezzatura da subacqueo e me la prestò, senza dirmi che la bombola dell'aria era rimasta in riserva: "Zizzo, se ti manca l'aria gira questa manopola e sei a posto" . Io vado e ad un certo punto comincio a non succhiare più aria e gira che ti rigira la manopola, non usciva niente. Per farla breve, meno male che non sapevo nuotare (ricordi quella sera che mi spingesti, tutto vestito, in acqua al Lido? Quella volta sì che stavo morendo …) così essendo vicino alla riva mi salvai nuotando a morto e non mi girai finché le bombole che portavo sulla schiena non cominciarono a strisciare sulla sabbia.
Questi gli Sharks. I Los Acciugas si formarono in contrapposizione agli Sharks, squadra di bravi giocatori di pallacanestro, fisico atletico. Quando si decise di andare tutti insieme a Gurgussum con la tenda rossa, avevamo bisogno anche noi della nostra identità e, con Gilo, dopo esserci guardati allo specchio in shorts, quello fu il nome più appropriato che ci venne in mente e lo scrivemmo in corsivo sul parafango anteriore destro della Jeep di Sgobbi che Giorgio, il verniciatore della carrozzeria, mischiando un po' di rimasugli di vernice, spruzzò tutta di giallo!
Assieme a me e Gilo Sgobbi c'erano Peo Tripaldelli e Franco Carelle. Poi si aggregarono: Luciano Plutino, Italo Giambernardini, Franco Irtinni e Gianni Mandarano.
Per dare ulteriore rilievo alla nostra identità, decidemmo di crearci una divisa che con l'aiuto di Franca, la mamma di Gilo (e un po' anche mamma di me), si riuscì a farla a tempo di record. La stoffa la comprammo da "Sei Dita" (pensate che il figlio è in Singapore, e nel biglietto da visita ha il disegno di una mano con sei dita!) ed il design fu ideato da me, Gilo e Franco Irtinni (il pignolissimo). Bermuda stretti con elastico in vita e camiciola senza collo, senza maniche e sandali di plastica (Bini?). La stoffa rigida, di nailon, era un fiorato celeste con giallo rosa e verde e mamma Franca ci cucì anche dei cappellini a falda cadente. Eravamo sempre sudatissimi perché non ci passava un filo d'aria neanche a soffiarla con il compressore, solo Gilo era a suo agio perché, come tutti gli alieni, suda in quella parte del corpo che è fra il polso ed il gomito, solo li!
Qualche giorno prima, sulla salita di Ghezzabanda c'erano dei diaulet con una scimmietta con la corda al collo. Contrattammo e la comprammo, la vestimmo come noi e fu un successo strepitoso. Moltissime le americane che ci fermavano per scattarci delle foto. La scimmietta viaggiava aggrappata al parabrezza abbassato. (Nel sito della Kagnew Station ho trovato la foto della scimmia che lasciavamo legata alla moto di Mandarano o di Luciano Plutino).
Mandarano scese in moto, Italo e Plutino con la Jeep di Feo ed il rimorchietto pieno di casse di birra (Colt 45) Melotti e qualche San Giorgio. Quando ci fermammo a Ghinda per comprare il pane, Paolino e Giulio Biot si misero ognuno ai fianchi del rimorchietto pieno di birra e scoperto, lanciando occhiatacce ai venditori di angurie che cercavano di avvicinarsi per sbirciare. Dopo aver comprato "il pane di Ghinda" e controllato l'acqua nel radiatore partimmo per affrontare la piana. Prima di andare a Gurgussum facemmo un giro trionfale passando dal Red Sea. Sulla curva dove avevano l'albergo, gli Americani ci fermarono e li fu proprio un fotoshooting, ci avranno fatto un centinaio di foto. Paolino e Giulio cominciarono subito a stringere amicizia con loro, altri Marines uscirono dall'albergo e giù foto, mentre noi siamo rimasti sulla jeep mezzi stravaccati per darci importanza. Continuammo poi verso il Lido, con la speranza che qualche ragazza uscisse e ci vedesse, invece niente, soltanto una decina di diaulet cominciarono a correre di fianco alla macchina ridendo indicando prima la scimmia e poi noi, chissá cosa intendevano dire … A questo punto Gilo, premendo sull'acceleratore, con balzo in avanti prese la via per Gurgussum.
Erano le due del pomeriggio ed i cammelli si erano messi all'ombra di quegli alberi spinosi (acacie?). Arrivati a Gurgussum, si scelse un posto a destra della pista da ballo rotonda e cominciammo a montare il paracadute/tenda. Franco Irtinni si rifiutò di aiutare perché aveva troppo caldo e, rossissimo, si rifugiò al bar con due coca-cola. Lo lasciammo andare perché quando Franco Irtinni ha sete e caldo si trasforma in un belva. (Una volta a Sabur, la concessione degli Sgobbi, si andò a fare una camminata per le pendici orientali con Gilo, Peo e lui. Non avendo calcolato che bisognava anche tornare in su, scendemmo giù verso la valle a grandi passi e siccome anche lì il caldo non scherza, al ritorno ci ritrovammo senza acqua e con tutto il percorso in salita: Franco Irtinni, ansimante, cominciò a diventare rosso e si sdraiò sul sentiero e non si volle più muovere. Peo e Gilo continuarono verso la casa e dissero che avrebbero mandato qualcuno con l'acqua. Franco nel frattempo era diventato rosso ciliegia matura e io allora comiciai a sventagliarlo col cappellino. Faceva veramente caldo, e comiciai a preoccuparmi perché ormai aveva le labbra blu ed aveva chiuso gli occhi e gli dissi "Franco, non morire adesso, ecco che arriva l'acqua." Dopo una mezz'ora arrivò Ailù con l'acqua e siccome ricordai che quando si è rimasti senz'acqua, poi bisogna bere piano piano, avvicinandogli la borraccia alla bocca, gli dissi "bevi piano sennò ti fa male" al che si svegliò e me la strappò dalle mani poi si attaccò e cominciò a bere alla glu-glu-glu. "Franco lasciamene un po', che ho sete anch'io", gli feci presente timidamente. "Se non mi lasci stare ti butto giù dal burrone" mi rispose, guardandomi con gli occhi sbarrati, e così fu che, mestamente, mi incamminai verso casa e lo lasciai indietro con Ailù.
Solo quando tornammo ad Asmara mi resi conto che Franco doveva aver preso un colpo di sole perché nei giorni successivi cominciò a voler inventare nuovi passi da ballo (Don Lurio avrebbe sfigurato vicino a lui). Ci si trovava a casa sua per fare le prove e alle volte si incavolava se non si andava a tempo, il più bravo era Arminio ma anche Gilo se la cavava bene. Poi ci esibivamo la domenica al Caravelle o al laghetto, da Bossa, quello che faceva le pizze proprio buone …
Ma torniamo alla nostra tenda a Gurgussum.
Il sole cominciava a scendere e nella sabbia avevamo scavato un buco che si poteva starci dentro in piedi. Quello era il centro della tenda e li piantammo il palo di alluminio che il papà di Plutino aveva portato da Asmara. La tenda rossa era su e, stanchi ma fieri, uscimmo a rimirarla. All'interno sistemammo dieci brandine tutte attorno in circolo.
Notte di luna piena perfetta per la caccia ai polipi. Io, lupo di mare, non li avevo mai visti vivi prima, per cui non vedevo l'ora di andare a caccia di polipi con il "fanus".
Luciano Plutino diceva di essere un esperto in materia e, guidati da lui ci avviammo verso la bassa marea. Era bellisssimo, cominciammo a vedere qualche polipo ma non era poi così facile prenderli. Renzo riuscì ad arpionarne uno ma al che Plutino arrivò gridando "Aspetta, aspetta! Si fa così" E prendendo il polipo fra le mani se lo portò alla bocca e cominciò a morsicarlo. Un urlo riempì la notte e Plutino si portò le mani alla bocca strillando dolorante perché il polipo gli aveva beccato la lingua …
(14/09/2004)

(Continua)

Ecco che si fa avanti Gilo per dire la sua in fatto di acciughe ...

Massaua, l'isola Verde, Gurgussum e la sua tenda rossa, le Isole, meta di vacanze per tutti noi, allora giovani.
Credo avesse il fascino della libertà intesa come luogo di non controllo (almeno parlo per molti di noi abituati in città a degli orari ben precisi) dove si potevano fare le famose ore piccole.Era lo stare insieme 24 ore su 24, vivere le giornate nel migliore dei modi, alla fine niente di particolare.
Quella volta della tenda rossa, le giornate scorrevano tra una nuotata e l'altra, belle pescate, per poi crogiolarsi al sole con un rilassamento mai più provato, si aspettava la sera, regina con quel cielo stellato come se ne vedono pochi, un bel fuoco sulla spiaggia e tutti amici intorno a raccontarcela, ridere, scherzare, qualche occhiata timida alla fanciulla preferita e piccole spavalderie che spesso ci rendevano un po' ridicoli.
"Ragazzi si va a caccia di polpi?" qualche fiocina, uno zembil, un fanus e via.
Si pescava fino a notte inoltrata, poi qualcuno dava la buonanotte e gli altri nuovamente intorno al fuoco.
E la musica? Non credo si possano dimenticare quelle canzoni che ci facevano sognare, "Il mondo", "Senza luce", "Nel sole" e quante altre.
Si parlava, parlava, parlava di tutto e di niente. "Luciano mi fai fare una corsa in moto?" "Solo se domani mi presti la jeep". "Checco, offrimi una sigaretta" "Non ne ho più, questa è l'ultima" "Allora fammi fare un tiro" "Ma certo" ... e mi passava la cicca dopo aver leccato e rileccato il filtro, che bastardo!
Qualcuno del gruppo: "Ragazzi io non ho sonno, dai andiamo a lepri?" e in un attimo eravamo in macchina.
Ricordo una notte: io alla guida, Riccardo "Zizzo" Pizzimento a fianco che fungeva da navigatore, Luciano Plutino dietro. Non so chi altro ci fosse, ma ricordo benissimo Franco "Checco" Irtinni seduto sulla ruota di scorta che nel fuoristrada era situata dietro, all'esterno della macchina. "Dai Gilo, vai!" e risate da farsi venire il male allo stomaco "... eccola laggiù, inseguiamola!"
Cominciava così la corsa alla lepre che correva veramente come ... una lepre.
Corri corri, a destra, Zizzo seguila col faro, è laggiù, più forte, è quasi sotto, porca p......, è schizzata a sinistra ... insomma questo benedetto inseguimento durava finché la povera bestiola aveva fiato.
Ad un certo punto la lepre si blocca all'improvviso e noi eravamo veramente in corsa: "Gilo, frena frena, l'abbiamo superata!"
Io blocco la macchina, retromarcia alla Nuvolari … e ci troviamo col dietro della macchina incastrati dentro un grosso cespuglio di acacia, (ricordate che spine?). Appena il tempo di renderci conto dell'accaduto, che sentiamo un urlo bestiale, parolacce, gemiti di dolore: avevamo crocifisso il povero Checco, che, in costume e a torso nudo, sembrava uno straccio messo ad asciugare su un cespuglio ...
(05/10/2004)

(Continua)


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