Dal
cassetto dei miei ricordi è venuto fuori, a sorpresa, lui:
il Gebelì. Chi se lo ricorda? "Gebeli" era il termine
generico con cui veniva comunemente "ribattezzato" il
proprietario musulmano del negozietto, che sorgeva solitamente all'angolo,
in periferia, e che vendeva di tutto un po'.
Il negozio, o meglio la stamberga, dei miei ricordi consisteva in
una stanzetta quadrata, così minuscola che il bancone era
quasi attaccato alla porta d'ingresso; davanti a questa pendevano
sette od otto stringhe metalliche scaccia-mosche che più
che a scacciarle servivano, con il loro tintinnio, ad annunciare
l'arrivo di un nuovo cliente.
Dietro il bancone sgangherato stava Alì (era il suo vero
nome), con turbante e gellebia, il cui candore aveva conosciuto
tempi migliori, attorniato da sacchi di iuta colmi di zucchero,
caffè e tè, datteri, noccioline e spezie. Sulle pareti,
appoggiate a scaffali dall'apparenza traballante, fatti di legno
grezzo annerito dal tempo, c'erano - poche - le merci confezionate
in pacchetti di varia dimensione: lamette da barba, cerini, gomme
da masticare e sigarette. Le più simpatiche, ai miei occhi,
erano le "Camel" per via del cammello color ocra, le più
strane le "Lucky strike", anzi 'luchi striche', nome incomprensibile
e davvero impronunciabile. C'erano anche confezioni minuscole e
multicolori di shampoo, saponette sfuse, fili da ricamo e, appesi
a grappolo, braccialetti di plastica coloratissimi, con disegni
intricati e vivaci davanti a cui mi incantavo ogni volta. E, dovunque,
le mosche, pigramente acciambellate sulle merci, intente a strofinarsi
accuratamente le zampette.
Alì
non chiudeva mai per ferie, così il suo negozietto era aperto
tutti i giorni dalla mattina alla sera, ad eccezione di un breve
intervallo tra le tredici e le quattordici e uno più lungo
il venerdì, giorno di festa comandata per lui. Però,
se capitava di doverci andare all'ora della chiusura pomeridiana,
bastava bussare e lo spioncino sopra la serratura si apriva e compariva
non Alì, ma la sua dolce metà. Già, perché
Alì viveva nel retrobottega con la moglie e una nidiata di
figli. Dopo essersi assicurata che a bussare non erano acquirenti
di sesso maschile , la moglie di Alì apriva uno spiraglio,
quel tanto che bastava per fare passare il cartoccio e io ne approfittavo
per osservare quella giovane donna, generalmente nascosta dal velo
nero, di cui, in quei brevi istanti, potevo ammirare i lineamenti
delicati del viso dalla carnagione pallida e dagli occhi, immensi,
sottolineati dal kohlì.
Dai
miei genitori quel bugigattolo, che rappresentava l'antitesi delle
più elementari norme di igiene, era stato marchiato "covo
di microbi e di chissà quante altre malattie"; tant'è
che mio padre, con tono severo, mi aveva proibito di mettervi piede.
Con il senno di poi non potrei, onestamente, dargli torto, ma allora
quanta fatica mi costava ubbidire! A volte, infatti, di nascosto
s'intende, ci andavo ugualmente per acquistare le "bazooka",
gomme da masticare di colore rosa, fantastiche per fare i palloncini,
che si vendevano in quadratini ben confezionati. Era allora che,
piccola spettatrice silenziosa, sospinta in un angoletto dai clienti
adulti, ai quali di buon grado avevo dato la precedenza, mi divertivo
ad osservare il gestore alle prese con gli acquirenti.
Destro di mano e di lingua, Alì confezionava dei cartocci
perfetti a forma di cono rovesciato, arrotolando attorno al braccio,
con un fluido movimento, la carta (ve la ricordate? era quella spessa,
di qualità grossolana e grigiastra), mentre, con voce cantilenante
e nasale, decantava la bontà sopraffina del prodotto che,
nel frattempo, rapidissimo, aveva pesato e, detto-fatto, trasferito
dentro il cono di carta. La rapidità della transazione subiva,
però, una battuta di arresto con la clientela anziana che,
diffidente, voleva analizzare da vicino zucchero o caffè
che fosse. Alì non batteva ciglio, anzi, più sollecito
che mai, acchiappava una manciata di "shikuor inglis",
zucchero inglese, sinonimo di super-raffinato, che metteva sotto
il naso del cliente presbite. Iniziava allora una scenetta degna
di miglior pubblico. L'acquirente si mostrava scettico, anzi, nel
segreto intento di costringere il venditore a tirare fuori il meglio,
si fingeva quasi, quasi offeso e sbottava:" Izi zahada shikuor?
Questo lo chiami zucchero bianco? Questo è zucchero scuro
dei tempi di guerra!" Ma Alì, vecchio volpone, lo aspettava
al varco e, fulmineo, produceva da sotto il bancone un misurino
colmo di zucchero dal colore decisamente più scuro e dalla
grana più grossa, rabbonendo, così, il cliente. La
transazione si suggellava con l'aggiunta sulla bilancia di una manciata
generosa di "shikuor" - "bakushish"- diceva
sorridendo il Gebelì, mettendo in mostra i denti anneriti
dal chat.
Che
fine avrà fatto Alì? Dopo tanti anni, al mio ritorno
ad Asmara, mi sono recata in quei paraggi, a mo' di nostalgico pellegrinaggio
che si fa nella illusoria speranza di ritrovare, intatti come nei
ricordi, volti e luoghi familiari.
Di Alì neanche l'ombra e al posto del suo bugigattolo ho
trovato un negozietto dall'insegna fluorescente, lindo, ben fornito,
illuminato a giorno dalla luce al neon. Che contrasto fra quella
luce cruda ed abbagliante e la fioca lampadina a bassissimo voltaggio
che Alì accendeva all'imbrunire e che, oscillando alla brezza
serale, creava un gioco di luci e di ombre dalle profondità
misteriose, proprio da caverna di Alì Baba'! Che dire poi
dei profumi? Di quel caleidoscopio di aromi: zenzero, cumino, cannella,
dell'odore penetrante del "tesmi" (il burro abissino)
e di quello più tenue dell'incenso? Tutto svanito.
Uscendo pensierosa dal quel negozio ricordo di avere avuto un soprassalto
di nostalgia per il bugigattolo oscuro e trasandato del Gebeli',
se non altro perché possedeva quell'innegabile impronta di
unicità e di colore folcloristico che il super-illuminato,
super-lucidato, ma ahimè! tanto anonimo negozio moderno non
possiederà mai.
Elvira Romano
(30 ottobre 2003)