IL
SOLDATO X (Asmara, estate 1992)
Giaceva,
bocconi, la divisa, quella dellesercito etiopico, scolorita
dal tempo, con le braccia tese e la testa leggermente girata di lato,
così come lo aveva colto la morte. Delle gambe ne rimaneva
una, laltra la trovammo poco più in là, seminascosta
da un cespuglio, con ancora lo scarpone attaccato. Al mio sguardo
interrogativo, mio cugino rispose, laconicamente:Zibyi
iene.
Doveva essere stato di statura medio-alta questo soldato di cui rimanevano
solo le ossa calcinate, a pochi metri dalla trincea. Era forse lì
che stava correndo a cercare rifugio quando la pallottola fatale laveva
colto, in mezzo alla schiena. Sulla giacca si distingueva, ancora,
il punto dentrata del proiettili, tra le scapole, un foro rotondo,
ben delineato, con la stoffa bruciacchiata e annerita tuttintorno.
Un colpo secco, la morte, probabilmente, istantanea.
Era stata unidea di mio cugino portarmi a fare unescursione
nei dintorni di Asmara. Dopo 14 anni di assenza, era pur giusto farmi
vedere cosa cera o non cera rimasto dellAsmara dei
miei ricordi. Non so neanche come arrivammo alle trincee che, simili
a profonde e lunghe cicatrici scavate nel cuore dellamba, ne
deturpavano la nuda bellezza. Ci arrampicammo su per un sentiero ripido
e roccioso; mia madre, un po affaticata, si appoggiava al figlio
quattordicenne di mio cugino. Questi, seguito da me, faceva strada,
indicandomi le trincee zigzaganti in tutte le direzioni, puntando
il braccio ora ai cunicoli scavati nella roccia, ora ai bossoli vuoti
dei proiettili, sparsi un po ovunque.
Ed ecco, allimprovviso, dietro una curva del sentiero, il soldato
morto.
Ricordo distintamente il tuffo al cuore e la sensazione di paralisi
alle gambe che si rifiutavano a proseguire. Il tumulto di impressioni
dentro di me era quasi soffocante. Il primo istinto, subito represso,
quello di fuggire a gambe levate. Dopotutto, non avevo mai visto niente
di simile tranne che nei film. La mia conoscenza dei morti iniziava
e finiva al camposanto e, tuttal più, alla doverosa visita
in sala mortuaria quanto qualcuno passava a miglior vita. Lunico
scheletro di mia conoscenza, fino a quel momento, era stato quello
illustrato nel libro di scienze. Poi, il riluttante approccio, curiosità
mista a riverente timore, con la sensazione, quasi, di profanare una
tomba. Il silenzio surreale era rotto dal fruscio del vento che sollevando
lievemente i lembi della divisa lacera, creava, per un attimo, la
macabra illusione di un guizzo di vita ancora serpeggiante tra quelle
ossa.
In sottofondo, quasi da una lontananza abissale, mi giungevano, da
una parte, le voci di mio cugino e del figlio che, accosciati, esaminavano
da vicino i poveri resti; dallaltra, il mormorio delle preghiere
di mia madre che, appoggiata ad una roccia vicina e tirato fuori il
provvidenziale rosario, cercava di superare lo choc, alternando un"ave
maria" recitata in tigrino ad un "eterno riposo" in
italiano, senza neanche rendersi conto di mischiare le due lingue.
Controvoglia, passo a passo, ricordo di essermi avvicinata al soldato.
Chi sei? Da dove vieni? Quanti anni hai? Che ci fai così lontano
da casa? Eccoti qua, povera vittima della furia umana che ha disposto
di te, della tua vita, soffocando i tuoi progetti, uccidendo i tuoi
sogni. Chissà se avevi moglie, forse anche figli
E non
sanno neanche dove sei. Domande e riflessioni silenziose le mie, destinate
a restare senza risposta. Provavo pena, tanta pena per questo e per
tutti i soldati falciati dalle guerre. Alla pietà, tuttavia,
dapprima lentamente come un rivolo sottile, poi con una violenza da
fiume in piena, si sostituiva la rabbia che cresceva e si gonfiava
dentro di me, fino al punto da farmi male al petto.
Ah!,- pensavo-, potere, anche per poco, far cadere le catene repressive
della ragione e delleducazione ed aprire le porte allistinto
primordiale, lasciare al corpo la possibilità di accostarsi
allanima, senza remore, per farsene portavoce e dare così
libero sfogo al dolore ed al pianto per lingiustizia di un destino
crudele. Potere assecondare, come in un rito purificatorio, lancestrale
bisogno di alzare le braccia al cielo per urlare il mio rancore, per
ululare la mia impotenza, il mio risentimento, per imprecare contro
la guerra ed i suoi creatori che si arrogano il diritto di disporre
delle vite umane.
Purtroppo, però, nel nostro civilizzato mondo occidentale non
sono ammesse manifestazioni così plateali, così primitive
del dolore, tutto resta cristallizzato. Mi hanno insegnato a piangere
furtivamente, ho imparato a nascondere la mia pena e, così,
dietro una facciata composta e civile, resta, soffocato (e a che prezzo!)
il dolore. Ricordo che, alla fine, a sopraffarmi non fu la rabbia,
ma una, quasi benvenuta, stanchezza immensa, corollario naturale di
emozioni profonde, tante, troppe.
E intanto la storia continua inesorabilmente a ripetersi con i suoi
corsi e ricorsi. Il dio della guerra regna sovrano, con la falce ben
affilata in resta ed uno sberleffo clownesco e vittorioso in viso,
perché, dopo tutto, sa bene che gli uomini di buona volontà
sono da tempo estinti, o quasi
Elvira R.
(maggio 2003)