Le mani nel cassetto del Chichingiolo
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LA SOVRANA ASSOLUTA Tutte le foto sono di Patrizia Reffo
Per la strada...
in una capanna,
con qualsiasi tipo di legna...
con vari tipi di cereali
(bulduc/miglio, mescela/sorgo e quando si può taff)
ma l'anghera non manca mai!
(Viaggiando per l'Eritrea)
L'odore della legna scoppiettante nel mogogò sotto la tettoia di lamiere schiacciate da sassi, parzialmente ombreggiata dall'esile eucalipto; la panchetta traballante in cortile dove due o al massimo tre acquirenti, stringendosi un poco, siedono in attesa di essere serviti; il sole caldo sul volto; le fronde della vite mosse lievemente dal vento con i suoi giochi di luci e di ombre sul pavimento di terra battuta; i gesti precisi e fluidi della donnetta esile e curva, dal volto gentile, segnato sì, ma non dagli anni, che versa l'impasto sulla piastra rovente; nell'aria il profumo inconfondibile dell'inghiera appena sfornata si sposa con quello della cipolla che sfrigola da qualche parte; poi, finalmente, il prezioso e tiepido fardello portato di corsa a casa dove è pronto lo zighini, o alternativamente, soprattutto durante la quaresima, il gustoso seppur umile scirò oppure il sostanzioso tumtumò, l'allicià profumatissimo o a volte, ma non spesso, il helvet bianco, spumoso e leggero.
E dovunque l'inghiera domina sovrana assoluta.
Ma, al di là dell'inevitabile acquolina in bocca, l'inghiera fa sempre affiorare in me la coscienza della sacralità del cibo inteso come mezzo di sopravvivenza. Mi sono spesso chiesta perché tale cognizione si manifesti con più forza con l'inghiera che con il pane. Forse perché, così come è tradizionalmente servita nel maadì attorno a cui i commensali siedono in circolo, l'inghiera viene a simboleggiare il sostentamento primario, ma c'è di più. Poiché nel momento in cui quasi tutti i sensi sono sollecitati al massimo, mentre il naso si inebria del profumo appetitoso e gli occhi luccicano appagati davanti al pasto abbondante con la bocca che già lo pregusta, proprio quando sarebbe arrivato il momento di buttarsi sulla vivanda con giustificabile entusiasmo e sano appetito, c'è sempre una battuta di arresto, una pausa per permettere alla persona più anziana di impartire la benedizione senza la quale sarebbe impensabile iniziare a mangiare. E in quei minuti di religioso raccoglimento, quando le frasi mormorate scorrono come i grani del rosario cementando l'irrefutabile demarcazione che differenzia l'uomo dalla bestia, il cibo si consacra come essenza di vita.
Si mangia senza fretta. La condivisione genera il centellinamento della vivanda e la sua pacata spartizione scaturisce dal discernimento che essa rappresenta il frutto del lavoro faticoso di una terra povera dove la siccità ed altre calamità rendono ancora più preziosi i rari momenti in cui la precarietà quasi costante è controbilanciata da un'abbondanza passeggera.
La classica abbuffata nostrana è una nozione sconosciuta. Si mangia masticando lentamente e con calma, non importa quanta fame si possa avere. Non sono accettate, nè giustificate manifestazioni di voracità e di ingordigia considerate animalesche e scusate solo nei bambini piccoli.
Ci sono regole protocollari di comportamento da rispettare. Oltre al fatto, come già detto, che è segno di grande maleducazione ingozzarsi mangiando velocemente, ogni commensale deve scrupolosamente limitarsi ad attingere alla porzione che ha davanti senza mai "scavalcare" nè "invadere" quella dei vicini o dei commensali seduti di fronte. Si pasteggia facendo pause frequenti per complimentare la padrona di casa che, impegnata a servire gli ospiti, finirebbe per mangiare poco o nulla se questi non provvedessero, premurosamente e a turno, ad imboccarla manifestando, in tal modo, il loro apprezzamento ed amicizia.
L'inghiera con gli intingoli a cui si accompagna più che essere il fulcro del pasto rappresenta per me il medium che permette alla memoria ancestrale di riaffiorare. Infatti, quel rettangolino morbido e spugnoso che stringo fra le dita mi fa ritornare alle origini, cioè all'apprezzamento dell'alimento inteso come sostentamento prezioso ed essenziale, consapevolezza questa troppo spesso sotterrata e quasi obliterata dal benessere sociale dove purtroppo moltissime volte capita di vedere il mangiare profanato, sprecato e buttato, dato per scontato e trattato con irriverente condiscendenza perché l'abbondanza e la facilità del procacciamento fanno perdere di vista la sua importanza primordiale.
Mi torna in mente in particolare un episodio che aprì ai miei occhi di ragazzina spensierata e privilegiata il primo spiraglio di una realtà diversa e sconosciuta in cui l'inghiera acquistava un peso fino ad allora ignorato: la differenza fra la sopravvivenza e la non sopravvivenza.
Successe quando un parente di mia madre giunse dal paese dove le cavallette gli avevano distrutto il raccolto che quell'anno prometteva di essere insolitamente abbondante. Ricordo il suo onesto volto di contadino scavato dal sole e invecchiato anzitempo mentre, lentamente e girando e rigirando tra le dita nodose un pezzo dell'inghiera che gli era stata servita, raccontava con frasi rotte da frequenti pause delle sue speranze e aspettative tutte sfumate nel giro di poche ore. Si esprimeva con parole semplici che proprio per la loro scarna essenzialità lasciavano intravedere ancora di più la sua profonda disperazione.
Quel dolore espresso con pacata dignità si impresse nella mia memoria a tal punto che ancora oggi, nella cornice offerta dall'armoniosa coralità del pasto condiviso con altri commensali seduti in circolo intorno al maadi, ogni boccone rappresenta la conferma della vittoria dell'uomo sulla natura avara e spesso ostile ed il pezzetto di inghiera che porto alle labbra suggella l'intrinseca sacralità del cibo.Elvira Romano
aprile 2009
Anghera o injera?
Io opto per anghera, perché così l'ho conosciuta le prime volte che la ricordo, quando Ametè tornava dal suo giorno libero la domenica sera con lo zighinì che le aveva dato sua mamma. Era dentro una contenitore smaltato, foderato di strati di anghera intercalati da zighinì di carne. Ametè ci chiamava in cucina e, accoccolate intorno a lei, si attingeva dal contenitore. Era un rito privato, tra noi e Ametè ed era bellissimo e buonissimo!!!
Davanti la palazzina dove abitavano anche le famiglie di Paoletta Comini e di Riccardo Pizzimento c'era un posto dove vendevano l'anghera. Quando si usciva dal Bottego dopo le lezioni pomeridiane, si arrivava fin là per comperare l'anghera della merenda. Calda, un po' appiccicosa, spolverata di berberè e sale, la si doveva inghiottire a piccoli bocconi, per non rischiare di incoconarsi ma quale Nutella!
Quando passiamo da Roma, facciamo la scorta di anghere da portare a casa, che poi divido in pacchetti da 4 e surgelo.
Quella volta, era il periodo natalizio, tornando a Venezia, siamo stati dirottarti su Trieste per nebbia. Arrivati all'aeroporto Ronchi dei Legionari, non c'è un bar aperto o un distributore automatico usufruibile e i ragazzi cominciano ad avere fame. Saliti sul pullman che ci porterà a Venezia, mi viene in mente la scorta di anghere che ho nella borsa a mano ai miei piedi e quindi comincio a pescare e tiro fuori dei brandelli di anghera che distribuisco ai ragazzi, a Vanni e me. L'armeggio non passa inosservato e avverto gli sguardi curiosi degli altri passeggeri. Cerco allora di esaminarmi con i loro occhi. E' come se io stessi attingendo dall'imbottitura del sedile tirando fuori dei lembi di gommapiuma per mangiarli lo dico a Vanni e cominciamo a ridere. Mangiamo brandelli di anghera e ridiamo, acuendo così la perplessità degli astanti, tanto che al colmo dell'ilarità notiamo che una mamma con disdegno fa voltare la testa al suo bambino che ci sta osservando curioso!
Anghera o injera o inghiera: in fin dei conti, che importa? E' sempre lei, schiettamente acidula, saporita e generosa nel suo conviviale proporsi stesa sotto il cibo, catturandone aroma e sapore. E' al tempo stesso cibo, piatto e posata e quando la "tovaglia" di anghera è finita, è finito anche il pranzo.
Ed è perciò giunta l'ora di un buon caffè.Daniela Toti
15 Aprile 2009
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