ALCE
Dove vengono riproposte due storie del baobab (
"un albero con le mani tra i capelli") che
Cesare Alfieri inventò e che oggi rileggiamo per ricordare chi
le scrisse.
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QUELLA
DELLA FILODRAMMATICA
Quando
la filodrammatica non era ancora stata inventata i commedianti potenziali
sfogavano le loro latenti prerogative inconsultamente in ogni luogo.
E cioè, Berenice Buttafuori in un lugubre sottoscala maleodorante,
Alceste Seichiamate al cospetto della moglie e dei figlioletti (inimicandoli
al teatro), Calimero Reggiscena dietro la bancarella del mercatino
rionale dal cui andazzo ricavava il necessario per sfamarsi e per
pagare l'abbonamento a "Dramma", Rodighiero Saichepena in
ufficio dove otteneva i consensi di un vecchio usciere sordo e ruffiano
e i continui richiami del caposezione.
Per non parlare poi di Saturnino Giuleluci che in potenza si riteneva
regista e che sfogava i suoi incontenibili eccessi sul garzone e sui
clienti della barberia da lui posseduta e gestita.
Quando diceva "ragazzo spazzola" lo ripeteva in tre o quattro
intonazioni diverse, ascoltandosi ed annotando mentalmente quale secondo
lui era la migliore. Faceva inoltre ripetere al cliente "Le basette
le vorrei a punta" oppure "Niente cipria sul collo"
finché l'intonazione collimava con le sue pretese recitative.
Cambiò anche garzone finché ne trovò uno che
diceva: "grazie, signore" con il timbro di voce di Arnoldo
Foà.
Ebbene, un giorno stava tirando il contropelo a tale Ovidio Sulatela
e contemporaneamente stava declamandogli alcuni passi della "Cena
delle Beffe" quando avvenne la folgorazione.
Fu merito dell'avventore, il Sulatela, che gli disse: Perché
non trasferisce la sua barberia sul palcoscenico del Circolo?
Il Giuleluci non se lo fece ripetere e presentò subito domanda
supportata da nullaosta della lega barbitonsori dell'Alto Molise,
domanda che venne bocciata.
Il Giuleluci reagì rappresentando nella sua bottega, fra un
taglio di capelli e l'altro, tre atti unici di Pirandello.
Io li rovino quelli là, quelli del Circolo, se non mi danno
il consenso di trasferirmi armi e bagagli sul loro palcoscenico. A
costo di fare anche il Bingo - dichiarò, esacerbato, il Saturnino
Giuleluci a un cliente mentre gli lavava la testa. E a shampoo terminato,
invece della consueta offerta del lunarietto profumato gli recitò
alcuni brani dell'Aminta del Tasso.
Nel giro di due mesi i clienti del Giuleluci solidarizzarono al punto
di perorare direttamente la richiesta del loro barbiere perché
in barberia non avevano più scampo. Tira e molla giunsero ad
un compromesso con i responsabili del sodalizio.
Il Giuleluci avrebbe potuto trasferire il suo armamentario sul palcoscenico
del Circolo dove avrebbe potuto svolgere la sua professione di barbiere
per uomo, ma dove non avrebbe mai dovuto creare intrighi teatrali.
- Qui casca l'asino! - esclamò il Giuleluci che in fatto di
proverbi faceva una gran confusione e che in effetti voleva dire "Chi
vivrà vedrà".
Non ci si fece gran caso e il Presidente si sottopose a un taglio
di capelli inaugurale al termine del quale il Giuleluci, con l'aiuto
di alcuni volonterosi (la Berenice Buttafuori, l'Alceste Seichiamate,
il Calimero Reggiscena e il Rodighero Saichepena) inscenò la
prima parte della Mandragola del Machiavelli.
Fu un discreto successo e il Presidente distrattamente credette che
applaudissero la sua sfumatura. Poi si rimirò nello specchio
e comprese che non poteva essere così poiché il Giuleluci
l'aveva letteralmente rovinato. Roba da portare l'elmetto per venti
giorni.
All'indomani, da casa, il Presidente, telefonicamente impartì
l'ordine che segue: che il Giuleluci e i suoi quattro malnati guitti
recitassero e declamassero a volontà, anche sul palcoscenico,
ma che il predetto non si azzardasse a circolare nei paraggi del Presidente
stesso con tra le mani arnesi da barbiere perché lo avrebbe
evirato (veramente disse castrato).
E così il Giuleluci rimase, mentre le sue tarabaccole furono
sveltamente ritrasferite dov'erano prima.
E con lui rimasero la Buttafuori, il Seichiamate eccetera a cui, col
tempo, si aggiunsero altri appassionati.
Da questo manipolo di prodi, di patiti, era nata la filodrammatica.
Bene, bravi! Rappresentazioni ancora non ne abbiamo viste, né
sappiamo se ne vedremo, comunque sappiamo che provano, che provano,
che provano.
Provano tutte le sere e chissà quanto proveranno ancora: probabilmente
per anni millanta.
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QUELLA DEL RALLY
Quando
il Rally non era ancora stato inventato i membri del comitato organizzativo
tutte le domeniche andavano a pescare ad Arba Minch e la gente diceva
ch'erano dei perditempo e che non sapevano concludere niente.
Uno dei membri una volta cadde nel lago ed ebbe delle noie con un
coccodrillo di metri quattro che transitava nei paraggi. Riuscì
a portare a riva quasi tutte le braccia e le gambe, ma la domenica
seguente andò a vedere giocare a bowling.
Il Presidente lo giustificò per tre domeniche consecutive,
ma poi fu costretto a farlo dimissionare e a sostitutirIo con tale
Amedeo Sputacristallo, uomo che a detta del popolino s'intendeva di
ciclocampestre.
Al cospetto dei membri, il Presidente del Rally dell' Altopiano gli
pose alcuni quesiti. - Che cos'è un Rally? - gli chiese in
primis.
Amedeo Sputacristallo rispose che una volta un granatiere di Pomerania,
qui di passaggio con la famiglia, gli aveva detto che se pronunciava
ancora quella parola alla presenza della sua signora e dei suoi bambini
gli avrebbe dato uno schiaffo di otto/nove chili.
Ergo: il Rally è parola da non pronunciarsi di fronte ai granatieri
di Pomerania e lui, lo Sputacristallo, si era subito adeguato. Del
resto lui non era tipo da contrariare chicchessia e tantomeno uno
con figli a carico.
La risposta fu giudicata non attinente, ma alquanto circostanziata
e così lo Sputacristallo fu inviato a MontecarIo quale osservatore.
Tornò dopo poche settimane dicendo che lui era sicuro che il
Rally era già stato inventato, ma nessuno sapeva bene cos'era
e che dal riserbo nulla trapelava.
Uno dei membri, il più fremente, in quell'occasione perse le
staffe e il fanalino destro dello stop e dichiarò che lui se
ne fregava e che possedeva le proprie idee in fatto di Rally.
Costui, ricordiamone il nome: Tazio Mangiamiglio, tolse di tasca due
etichette adesive, una reclamizzante il carburante di nota compagnia
petrolifera e l'altra esaltante le qualità di una bionda sigaretta
che fumano anche i piloti della T.W.A., le appiccicò sulla
sua auto e tornò a casa forando tre gomme e arrotando due capre
ed una faraona.
Non si era ancora al Rally, ma certamente si era lì vicino.
L'addobbo dell'automezzo, i pneumatici a brandelli, il trucidamento
di animali da cortile e selvatici ci portano a pensarlo.
Il Mangiamiglio fu giudicato uno sbruffone, però, qualche altro
lo imitò. Vi fu chi appiccicò alla macchina non due,
ma ben otto etichette adesive reclamizzanti questo e quello, e chi
in cento chilometri riuscì a fare esplodere sette gomme e a
danneggiare otto greggi e una mandria.
Si andarono a cercare le piste più impervie, i costoni più
scoscesi, le paludi, i picchi, gli strapiombi, i deserti. Se uno metteva
sotto soltanto una gallina rientrava a casa di notte per non farsi
vedere e non lo diceva a nessuno. Si gareggiò a etichette,
a gomme bucate a animali arrotati.
Il primo campionato se lo aggiudicò appunto il Tazio Mangiamiglio,
il quale aveva tappezzato di etichette adesive perfino il parabrezza
ottenendo così quella perfetta mancanza di visibilità
che gli consentiva di centrare tanto un dromedario che un qualsiasi
passeraceo.
Intanto lo Sputacristallo, ch'era ritornato a Montecarlo, mandò
a dire per le vie brevi che il Rally lui lo aveva finalmente visto
e che dopo la cresima di un suo nipote, al quale doveva fare da padrino,
sarebbe rientrato e avrebbe dato le delucidazioni del caso.
Fate come volete, ma noi continueremo a correre così disse
molto seriamente il Mangiamiglio facendo l'occhiolino alla cassiera
del ristorante che gli aveva promesso uno sticker del Bitter Campari.
E continuarono.
Poi, a nipote cresimato, rientrò lo Sputacristallo ed insistette,
anche per non far dire ch'era stato a Montecarlo due volte inutilmente,
perchè la specie di corsa lanciata dal Mangiamiglio venisse
chiamata Rally.
Lo si accontentò, per ovviare discussioni ed anche perchè
si seppe che era amico di un pretore della Valtellina.
Ed oggi con busto bifronte (da una parte la sua faccia e dall'altra
quella del Mangiamiglio) si è voluto dar merito dell'invenzione
del Rally ai due sopracitati.
Il busto è stato posto laddove perì la prima capra,
laddove oggi, quando si corre il Rally, i pastori titolari di un vitello
zoppo, sospingono sulla strada l'animale menomato onde sia investito.
Poi chiedono risarcimento pari a quello di un vitello nuovo.
Possa quel busto rimanere a ricordo imperituro dello Sputacristallo
e del Mangiamiglio ancora per anni millanta.
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14 Ottobre 2007
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Alce la
tua penna ci manca!
Silvano Narrante.
(25/10/2007)
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Caro Chichingiolo,
scrivo queste poche righe per ringraziarti. La tua presenza e vicinanza
e l'espressione di affetto che hai dimostrato è stata molto
apprezzata da me e dai miei.
Ho aspettato a scrivere perché volevo anche dire qualche cosa
di papà e di Alce, ma non è semplice.
Ho lasciato così stemperare un poco le emozioni, ma ancora
non è risultato facile. E poi ho capito che per parlare di
Alce avrei dovuto cercare aiuto nelle sue stesse parole.
E così mi sono messo a rileggere i libri, gli articoli, le
recensioni, le poesie
Saltando da una parte all'altra
Tutte pagine già lette ma che ora mi sembrano diverse
Ho rivisitato tutti i suoi libri, e mi sono soffermato in modo particolare
sulle poesie e sulla raccolta "Su poeti e poesie".
Le prime, scritte da Alce ad Addis Abeba per passare il tempo nelle
serate di coprifuoco, sono pubblicate nel libro intitolato "Chi
non tocca i fili campa"; l'altro libro è invece una raccolta
degli interventi di papà fatti in occasione di premi letterari
dove presenziava come giurato o presidente della giuria.
Ho riletto usando a volte le sue copie personali dei libri che ho
scoperto piene di appunti e sottolineature forse usate da papà
per preparare altri lavori, o interventi e conferenze.
Parlare
oltre a scrivere papà amava parlare, intrattenere,
trattando anche i temi più eruditi a modo suo, con la capacità
di sdrammatizzare e di vedere aspetti e cose positive che altri spesso
non riescono a cogliere.
Il suo modo di porgersi, dote coltivata recitando e calcando palchi
ad Asmara, Addis e poi anche altrove negli anni italiani, e le cose
che sapeva dire, lo hanno reso da sempre un amabile affabulatore che
amava lasciarsi ascoltare.
"Guardarsi ai fianchi", diceva, è il modo da utilizzare
"per scoprire che tutto ciò che è considerato un
sottobosco è invece un fiorente giardino". E riusciva
ad intrattenere chi lo ascoltava, parlando di cose semplici, di fiducia,
di speranza, di poesia. Riusciva a trasformare in racconti e poesie,
immagini comuni di vita quotidiana apparentemente banali, che sapeva
analizzare e guardare dalla giusta angolazione. "La poesia si
crea dentro guardando fuori" e Alce sapeva dove guardare e come
trasferire ciò che sentiva su di un foglio. E poi la sua indole
semplice e la sua vena umoristica lo portavano a dire che le sue modeste
poesie "poesie forse non sono, ma soltanto capriole di parole
alla ricerca del bello e del vero".
E sulle novelle diceva: "Le mie novelle non hanno intenzione
di travolgere le idee del lettore, vogliono soltanto accarezzarle,
con maniera, con garbo". E ancora: "
quando scrivo
adopero il cuore."
"Amateli i miei personaggi che nessuno di loro è cattivo;
ho contrapposto ai personaggi buoni altri personaggi con ragioni o
convinzioni opposte ma non cattive. Qualcuno richiederà se
ho inteso dire che l'opposto di bontà non è cattiveria.
Ebbene, ho inteso dirlo."
Potrei continuare ancora con citazioni e pensieri a volte esplicitamente
profondi, a volte con significati nascosti dietro la veste umoristica
ed ironica.
Alce si è cimentato in tutte le forme dello scrivere praticando
il giornalismo, scrivendo per il teatro o libri di novelle e poesie,
ma è stato soprattutto un umorista. E umorista si proclamava,
"perché trovo nell'umorismo il mezzo per sopravvivere,
ma non chiedetemi sopravvivere a che cosa".
Come dicevo, ho riletto e colto nelle pagine già note, sensazioni
diverse che forse sono quel qualcosa che sopravviverà. Perché
un buon umorista certo diverte, ma fa anche riflettere. E papà
è stato un buon umorista.
Ninni
Noceto,
7 novembre 2007
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