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Le mani nel cassetto del Chichingiolo
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BRUNO ANDREA DALMASSO SI RACCONTA
(Intervista raccolta da Franco Caparrotti)
Quarta ed ultima puntata


Questa è l'ultima puntata dei racconti di Bruno. E' la puntata che chiude con un racconto drammatico la parentesi in Eritrea del nostro amico.

Bruno, l'epilogo di questa bella avventura Eritrea non è stato dei migliori per te e come per tantissimi altri connazionali.
Questa bella vita è finita quando nel 1974 ci fu il colpo di stato e fu deposto l'Imperatore Hailè Sellasiè.
Il Negus avrà avuto diversi lati poco buoni ma era una grandissima persona. Una persona che sapeva tenere l'Etiopia unita, che dava garanzie principalmente a noi italiani. Un giorno disse: "I capitoli della guerra, dell'occupazione fanno parte della storia. Ora uniti dobbiamo ricostruire questa nazione. Gli italiani che lo desiderano possono rimanere e contribuire a questo progetto."
Però il problema eritreo (l'indipendenza) non era risolto, continuava ad essere una "spina nel fianco."
E sì, difatti nel 1963 se ben ricordo, i candidati per il premio Nobel per la pace, furono il Papa Roncalli, il Papa "buono", Giovanni XXIII e l'Imperatore Hailè Sellasiè. Il premio non gli fu conferito proprio per il problema interno con l'Eritrea.
Torniamo sui nostri passi.
Con il colpo di stato, fatto veramente in punta di piedi, si pensava che molti problemi potessero essere risolti, incluso quello dell'Eritrea. A capo della giunta militare c'era Amman Andom (eritreo di nascita). Chi meglio di un eritreo poteva risolvere il problema eritreo? Purtroppo, come tutti sanno, non fu cosi. La sua casa ad Addis Abeba venne rasa al suolo con lui dentro e il "Derg" iniziò a mostrare il suo vero volto. Iniziarono le nazionalizzazioni, gli espropri, le epurazioni e il conflitto in Eritrea divenne sempre più cruento. Maggior parte della nostra comunità rimpatriò ma molti altri, incluso il sottoscritto, rimasero.
Come detto precedentemente, ero molto legato (nell'ambito sportivo), al Telecommunication.
Il Fronte di Liberazione Eritreo faceva ogni giorno proseliti, soprattutto tra i giovani e principalmente nei gruppi sportivi. Conoscevo la maggior parte di questi giovani, si stava insieme. Li portavo agli allenamenti, li seguivo, li portavo in giro. Il governo etiopico sapeva pure chi erano e con i suoi agenti, monitorava spostamenti, luoghi di frequentazione e chiunque era vicino a loro. La mia amicizia non era limitata agli eritrei, ero anche amico degli etiopici.
Lavorando al CIAAO, conoscevo moltissimi ufficiali etiopici della seconda divisione che alloggiavano in albergo e che di tanto in tanto organizzavano ricevimenti e banchetti. Da Addis Abeba venivano spesso ufficiali di alto rango e quindi ogni occasione per celebrare era buona. Tra l'altro conobbi pure Minghistu Hailemariam prima ancora che prendesse totalmente il potere in mano sua.
Alla fine di Gennaio del 1975, ci fu un violento attacco da parte eritrea, vicino Asmara, a Wokki Debbà, praticamente dietro il Forte Baldissera. Iniziava così il conflitto vero e proprio.
Dopo alcuni giorni, incontrai un amico eritreo che mi chiese un passaggio sino all'altezza di Campo Cicero. Mi disse che andava a trovare la famiglia e a convincerla a traslocare in città.
Probabilmente fui visto da qualcuno che prontamente riferì al comando etiopico, di un certo Bruno che dava passaggi in macchina ad un elemento molto sospetto facente parte del Fronte di Liberazione.
All'epoca vigeva il coprifuoco. Vista la mia amicizia con gli ufficiali etiopici e con il fatto che lavoravo in albergo, avevo avuto un "pass", un permesso speciale di cui tutti i militari di guardia erano a conoscenza. Quindi anche se con cautela, mi muovevo tra l'albergo e casa. Il permesso me lo aveva fatto un generale che in seguito fu fucilato in quanto contrario ai metodi di Minghistu.
Un giorno, intorno alle 17.30 (il coprifuoco iniziava alle 17.00) accompagnai a piedi una ragazza che frequentavo a casa sua vicino l'Albergo Italia e stavo rientrando. Ero all'altezza di Palazzo Martini, vicino l'Ufficio Tasse, quando una macchina della sicurezza con alla guida un mio conoscente e amico si ferma e mi offre un passaggio. Declino, l'offerta dicendo che ero ormai arrivato a destinazione. A questo punto scesero due militari "Torserauit" armati di mitra e mi gettarono letteralmente dentro la vettura "senza fare alcuno sconto".
Mi portarono nel compound del Palazzo Reale. Appena sceso dalla macchina mi diedero un calcione sulla gamba facendomi cadere. L'urlo di dolore fu smorzato dalla canna del mitra in bocca e dalle ingiurie più sconce che abbia mai sentito. Hanno continuato a pestarmi a sangue sino a che il dolore è stato sopraffatto dalla perdita dei sensi. Venni trascinato in un garage delle rimesse governative. Praticamente dove venivano accudite e custodite le carrozze e le vetture imperiali e governative. Nello spiazzo antistante sorgeva una grande tenda "Tensat Derrash" veniva così chiamata dal governo etiopico dove si riuniva.
Nella rimessa in cui fui gettato era occupata da altri ventinove ufficiali dell'aviazione di origine eritrea. Tra gli altri vidi che c'era pure il portiere del Serahe. Era tenente dell'aviazione. Nella rimessa acconto c'erano una trentina di ufficiali di marina eritrei e il mio amico "sospetto" del Fronte di Liberazione.
Non davano né acqua né cibo. Erano le famiglie dei prigionieri a portare i viveri. Venni riconosciuto dal portiere del Serahe che divise con me il frugale pasto. Per me era difficile sia mangiare che bere da quanto ero gonfio. Riuscivo a mala pena a parlare. Il "portiere" mi disse di tenere chiusa la bocca perché c'era un infiltrato. La notte durante il sonno, accovacciato vicino a me, con un segno mi indicò "l'intruso". Puntualmente il giorno dopo all'alba venni avvicinato cordialmente dalla spia che cercava di farmi parlare. Forte del fatto che sapevo chi fosse, dissi di non conoscere il motivo del mio arresto.
Perché all'alba?
Perché all'alba entrarono nel garage i militari di guardia armati e fecero alzare in piedi tutti quanti e ci fecero camminare in circolo dentro la stanza.
Eravate con i piedi legati?
No, eravamo liberi. Giravano intorno e io non sapevo ancora cosa ci riservava la colazione. Alle sei, aperto il portone, diedero l'ordine di recarci in fila ai bagni. I bagni erano all'estremità opposta delle nostre "prigioni". Erano a circa centocinquanta metri. Il "corridoio" del tragitto era formato da due file di "torserauit" armati di bastoni di eucalipto. Ogni passo era accompagnato da una bastonata. Arrivato in fondo ormai "non usciva più niente". Il ritorno era lo stesso. Anche se non avevi la forza, cercavi di accelerare il passo ed arrivare ed evitare questo supplizio.
Durante il giorno ci lasciarono tranquilli, ripetendo però il "calvario" dei bagni alle sei di sera.
Ogni giorno venivo incalzato dalla spia che cercava di sapere e sapere. L'unica cosa che ribadivo era che ero all'oscuro e che gli amici etiopici o meglio quelli che si facevano credere amici non lo erano affatto.
Questo fatto che segue l'ho saputo molto più avanti in Italia da uno del gruppo etiopico che alla fine aveva disertato ed era scappato. Gli etiopici, pensando di essersi sbagliati, organizzarono il cosiddetto confronto all'americana. Insieme ad altre sette persone siamo stati portati in una stanza incappucciati con sacchi di iuta. Avevano le fessure agli occhi per poter vedere. Ci hanno numerati da uno ad otto e siamo rimasti in attesa senza sapere cosa poteva succedere.
Nella stanza entrano dei militari e un giovane a cui viene chiesto di riconoscere la persona vista con quello del Fronte di Liberazione. Al primo confronto non riconosce nessuno. Il confronto viene ripetuto ricambiando alcuni elementi e rinumerandoci. Anche questa volta non riconosce nessuno. Dentro di me mentre il cuore batteva all'impazzata pensavo che l'avevo scampata bella.
Scusa Bruno ma se eravate incappucciati come poteva riconoscervi?
Lui, quel giorno non aveva visto in faccia la persona. L'aveva vista da dietro, quindi corporatura, altezza e scarpe. Io usavo gli stivali "Cipolini" che erano però usati da altri. Gli etiopici sapendo che conoscevo quello del Fronte, pensarono subito a me.
A questo punto nella riunione alcuni militari che seguirono il confronto e poiché il Consolato Italiano di Asmara e l'Ambasciata di Addis Abeba incalzavano il Derg chiedendo di me, decisero di eliminarmi. Mi avrebbero sparato e messo un cartello con la scritta "spia etiopica" per far ricadere la colpa agli eritrei. Ormai mancavo all'appello da diverso tempo. Non potevo essere svanito nel nulla. Mia madre nel frattempo era stata portata ad Addis Abeba e quindi in Italia. Erano mia zia e mia cugina Annamaria a fare pressione alle nostre autorità. Il Governatore di Asmara il "Ghetaccue" diceva che essendo amico degli eritrei era probabile che fossi andato con loro e che forse mi era successa una disgrazia.
Fortunatamente per me uno del Derg presente alla riunione (l'unico che dimostrò di essere amico) andò dalla ragazza eritrea che frequentavo e gli disse che ero in mano loro, dove ero chiuso esattamente e che l'indomani mi avrebbero ammazzato, di informare il Consolato Italiano. Non c'era tempo da perdere.
La ragazza si precipitò al Consolato. Non mi soffermo nelle peripezie che ha avuto per parlare con il nostro Console. Alla fine riuscì a parlarci e a dargli tutte le informazioni necessarie. Il Console, seppur restio, chiamò il Governatore incalzandolo e dandogli tutti i dettagli della mia prigione. Disse che era un diritto internazionale per un Console vedere un compatriota prigioniero e che il Consolato non si sarebbe intromesso in un processo a mio carico se avessi commesso qualsiasi crimine. Il Governatore fece promessa di indagare e che avrebbe richiamato appena saputo qualche cosa. Il giorno seguente il nostro Console ricevette la chiamata del Governatore che asseriva il fatto che ero stato fatto prigioniero. Che non ero però nella prigione indicata dal Console, il mio trasferimento in altro luogo era avvenuto per ragioni di sicurezza. Nel giro di qualche giorno potevo essere visitato.
Logicamente io ero all'oscuro di tutto ciò. Infatti, una mattina arriva una macchina, una Volkswagen a prendermi e mi porta all'ospedale militare al "78", dopo la Birreria Melotti. Dei medici bulgari mi visitano e nei tre giorni che seguono, vengo curato con medicine, pomate, fisioterapia, massaggi, cibato a volontà. Non capivo proprio il dietro front del loro atteggiamento. Al terzo giorno venni prelevato dall'ospedale e portato in una villettina all'interno del parco imperiale. C'erano abiti puliti e prelevati da casa mia. C'era una bottiglia di whisky e alcune riviste tipo Time e Newsweek.
Un signore mi informò che a breve avrei ricevuto una visita e che dovevo dire che ero stato trattato bene.
"Come posso dire queste cose dopo tutto quello che mi avete fatto?" dissi. "Signor Dalmasso, rispose l'interlocutore, "sua madre e i suoi figli sono in mano nostra. Si sappia regolare."
Ragionevolmente non sapevo che entrambi i figli e mia madre erano in Italia, quindi compresi l'avvertimento. Di li a poco entrano nella stanza il Vice Console e il Professore Greppi.
Il Professore mi guarda sollevato dicendomi che tutti mi cercavano e non sapevano dove fossi. Mi chiese anche come stavo, strizzandomi l'occhio. Dissi che ero stato portato in questa casa per accertamenti, che ero stato sempre trattato bene. Mangiare a volontà, whisky, sigarette "Salem" al mentolo, ecc. Il Vice Console mi diede una stecca di sigarette "MS". Era la prima volta che vedevo e fumavo le MS. Mi disse pure che gli avevano assicurato che nel giro di pochi giorni sarei tornato a casa.
Andati via gli ospiti, si presentano alcuni ufficiali etiopici con in testa il capo del Derg ad Asmara Ghetteiù. Soddisfatti del mio comportamento, mi dissero che meritavo un premio e fecero entrare in stanza la ragazza eritrea (la mia amica, quella che aveva riferito al Console della mia prigionia) e che la mattina seguente potevo rientrare a casa.
Infatti, la mattina dopo mi dissero che ero libero, potevo andare a casa e che dovevo però passare alle undici dall'Ufficio dell'Immigrazione a ritirare i miei documenti. Nessuno sapeva di questa mia repentina liberazione. Arrivato a casa, trovai la porta sfondata. C'era stato un allagamento, tutto era a soqquadro. Dissi alla mia amica di mettere a posto mentre io sarei andato a ritirare i documenti e a comprare un po' di pasta e contattare il Consolato e i miei parenti.
Arrivato all'Immigrazione mi fecero aspettare diverse ore e poi mi dissero di montare in macchina.
Di nuovo iniziarono le miei angosce, i miei tormenti e i miei pensieri. Cosa stava succedendo di nuovo?
Arrivammo all'aeroporto, scesi dalla macchina e mi fecero salire su un aereo.
Era un Tupolev russo?
No, era il Boeing dell'Ethiopian Airlines. In breve l'aereo decollò e dal finestrino guardavo la mia Asmara che diventava sempre più piccola. Non sapevo che era l'ultima volta. Vedevo pure Belesa e Addi Nefas in fiamme. Che tristezza, quanta tristezza.
[Bruno interrompe il racconto. Vedo sul suo volto un velo di malinconia e gli occhi leggermente umidi. Sono passati più di trent'anni e questo dimostra come è forte e innato il nostro amore per Asmara e la nostra Eritrea (ndA)]
Atterrati ad Addis Abeba, vengo portato all'"Handegna Kefleto'" vicino allo Stadio Nazionale. Qui ho visto il Sindaco di Asmara Aragot Abbai con il suo segretario, il Vice Governatore Tesfayohannes Berhè ed altri personaggi istituzionali. Passata la notte chiuso li, non sapevo cosa mi aspettasse. Con grande sorpresa, al mattino venne Minghistu Hailemariam a fare visita e iniziò a insultare e dare calci ai reclusi. Mi venne vicino e si ricordò di me. Chiese cosi avevo fatto. Avuta risposta, si voltò chiamandomi spia e fanfarone e mi rifilò un calcione al fianco che mi fece vedere "le stelle a mezzogiorno". Il giorno seguente, ammanettato, venni portato all'aeroporto e fatto salire su un "Boeing". Ero seduto nell'ultima fila con accanto uno della sicurezza. Sopra le mani avevo la giacca che copriva le manette. Dopo cinque ore di volo, atterrammo ad Atene per uno scalo tecnico. Quindi di nuovo in aria e mi sono ritrovato a Roma. Ero stato praticamente espulso.
Scesero tutti i passeggeri e rimasi per ultimo con l'equipaggio. Li conoscevo tutti quelli dell'equipaggio, in passato avevano alloggiato al CIAAO. Mi salutarono affettuosamente.
A Fiumicino, l'Ethiopian veniva parcheggiata in una piazzola distante l'aerostazione in quanto ritenuta, in quegli anni, compagnia a rischio. Mi sono ritrovato solo con i gommati dei carabinieri che facevano di guardia. Dopo diverse vicissitudini, chiarimenti, deposizioni, interrogatori da parte dell'autorità italiane mi sentivo un uomo libero.
Il mal d'Africa però cresceva sempre più forte e quindi la decisione di ritornare.
Ed eccomi qui in Libia con te a raccontarmi.

* * * *

Bruno, grazie ma grazie di cuore davvero per la tua disponibilità. In questa lunga serie di racconti, ci saranno state omissioni, fatti graditi di più a certi lettori e non ad altri. Momenti di vita esaltanti e altri meno. Insomma è stata una carrellata di ricordi vivi e lucidi. Qualcuno mi ha scritto:
"Leggo e rileggo con gusto le ISTORIE sotto forma di intervista a quel prodigio di memoria che è Bruno. Aspetto sempre le successive puntate delle ISTORIE (Alla Guicciardini, che però narrava di Firenze, niente in confronto di Asmara)."
Questo ci ha fatto molto piacere, si vede che insieme al nostro sempre disponibile "Chichingiolo" abbiamo fatto qualche cosa di utile per i lettori.
F.C.

* * * * * * * * * * *

Un sentito ringraziamento a Franco Caparrotti per la collaborazione e il lavoro profuso per darci questi racconti che sono stati apprezzati da numerosi lettori del Chichingiolo e un caro saluto a Bruno, custode di tante memorie.
il C.


17 Ottobre 2006

Gentile Chichingiolo,
mi chiamo Susanna Fessahaie, oltre ad essere un'asmarina (il cognome la dice tutta) sono una delle guest più assidue del tuo web. Quasi ogni sera passo in rassegna ogni pagina del tuo sito, pur vedendo che dalla data non vi è alcun aggiornamento. Grazie alle sbirciatine dietro le quinte, ho avuto la possibilità di contattare vecchi amici ed amiche della nostra meravigliosa e sfortunata terra.
Oggi non mi è stato possibile nascondermi ancora dietro quelle quinte. Alla vista del nuovo aggiornamento ho sorriso come un bimbo davanti ai regali di Natale (..eh si...i regali di Natale per quelli che non sono della generazione delle mie figlie, rispettivamente 28 e .....07 anni, avevano un enorme valore). Ho iniziato a leggere con avidità i racconti del sig. Dalmasso e mentre la mente tornava a quei giorni terribili del 74- 75 un nome colpisce la mia attenzione, con una violenza tale da lasciarmi stupita. Non so spiegare il perché di tale violenza, anche perché ormai dopo tutti questi anni quel nome l'ho visto scritto e riscritto in occasioni piacevoli e non. Il nome è Aragot Abbai (mi permetto una piccola correzione ed una piccola aggiunta S.E. Dejazmatch. HAREGOT ABBAI). Si, quel nome a me tanto caro non è solo il nome del sindaco che ha tanto amato Asmara, e solo chi l'ha conosciuto bene può testimoniare di quel suo grande amore per "l'isola sopra le nuvole".Quel nome per me rievoca la mia infanzia e l'adolescenza, iniziata con lui e terminata senza di lui. Rievoca pomeriggi seduta davanti alla scrivania, sita davanti alla finestra con veduta "fronte entrata", per vedere la macchina blu frenare davanti e e poter nascondere velocemente il fotoromanzo nell'ultimo cassetto lasciando in bella vista l'atlante, perché Chi scendeva da quella macchina poteva fermarsi nello studio di noi ragazze e venire a fare una chiacchierata "in italiano" (ero l'unica in casa a frequentare scuole italiane).Se invece Saliva i pochi gradini ed entrava in casa, per tornare magari dopo aver bevuto il tè ed essersi infilato le scarpe comode, il mio fotoromanzo andava su e giù ogni qualvolta la porta di fronte si apriva e chiudeva dietro qualcun altro, fino ad una certa ora. Dopo quell'ora capivo che era Impegnato in qualcosa di importante e potevo rilassarmi e proseguire a fare ciò che per Lui era inconcepibile,(non penso abbia mai saputo dell'esistenza dei "famosi" fotoromanzi) . Lui che quando aveva notato la mia orrenda calligrafia mi aveva "consigliato" di tenere un quaderno dove copiare testi dei mie libri, molto lentamente, per padroneggiare nella bella "grafia". Scrivere lentamente, era il suo modo per rendere leggibile la sua non "eccellente" grafia. Lui. Lui che mi dava, per compito la lettura di qualche articolo della rivista l'Europeo, per discuterne in seguito con Lui??!! .. L'abbonato era lui mica io! Io mi sarei abbonata volentieri a miei fotoromanzi!!!!
Lui che mi tirava su per un braccio (dall'ascella!!!) e mi diceva perchè quando torno dal lavoro, fai capolino e ti vai a nascondere anziché venirmi a salutare, lo sai "che ti voglio bene?" ......Che ne potevo sapere io? Io che pensavo che tutto il tempo che passava nello studio a farmi domande del tipo: "come tradurresti himbashà in italiano?" Lo faceva per farmi uscire pazza, perché poi dovevo andare ad inventarmi il modo per uscire da quella situazione, conscia del fatto che finche non trovavo la risposta, mi avrebbe messo in croce.Che ne potevo sapere io che l'affetto di una persona cosi speciale mi sarebbe stato tolto in un modo cosi repentino da non lasciarmi neanche il tempo di capirne la grandezza? Non perché lui fosse il dejazmatch ma semplicemente perché era il mio adorato nonno per le carte, ma per me, Papà a tutti gli effetti. Papà per la figlia del suo adorato figlio Fessahaie Haregot. Fessahaie Haregot che gli ha fatto sudare sette camicie dall'adolescenza fino alla fine, ma che dal giorno che si è potuto iniziare la ricerca dei resti del suo amato padre in terra d'Etiopia non si è dato pace, in alcune occasioni scavando lui stesso ed insieme alla famiglia hanno cercato ogni dove fino al ritrovamento dei resti del corpo del nostro adorato padre riportato in terra Eritrea. Oggi tutti e due sono sepolti nella cappella di famiglia nel cimitero di Arbate Asmerà, loro terra natia, cioè ad Asmara.
Tanti ricordi ed insegnamenti di chi non c'è più e quando c'era, era per i più il Deja, ma per me, la persona che più di tutte ha insegnato i valori più importanti della vita, che mi porto sempre dietro e che noto con orgoglio aver trasmesso alla più grande delle mie figlie, per ora!......la piccola? Sembra sulla buona strada.
Grazie Chichingiolo per questa opportunità. E' la prima volta che scrivo su mio nonno che ho avuto l'onore di avere molto di più come padre.
Perdonate gli errori, sono dovuti allo stato d'animo del momento, (passatemela per buona, che scusa potrei dare al Deja, mi immagino il suo viso severo e scuro, con quegli occhi così chiari che sembrano dire.............?!)
Grazie e buone cose a tutti.
Il mio indirizzo e-mail è: fesshare@yahoo.com
Susanna Fessahaie
(26/10/2006)


Cara Susanna,
volevo scriverti in privato, ma ho deciso di farlo tramite il Chichingiolo perché penso (posso darti del tu vero? Mio padre e tuo nonno hanno lavorato tanti anni insieme...) che il ricordo del nostro amato sindaco debba essere sempre mantenuto vivo. Mio padre ci parlava spesso di Haregot (in casa noi lo chiamavamo così e lo consideravamo un amico, non solo Sua Eccellenza), di quanto lo stimasse, di quanto fosse onesto e quanto tenesse alla città ed al suo popolo. Io purtroppo ero troppo giovane e non lo ricordo bene, ma l'ho incontrato alcune volte quando andavo a trovare mio padre al Municipio. Era una grande festa per me, varcare la soglia del palazzo municipale, perché sapevo che mio padre talvolta mi lasciava usare la sua macchina da scrivere e mi faceva vedere le belle sale dove si tenevano le cerimonie più importanti. So che Haregot si interessava della nostra famiglia e chiedeva sempre a mio padre di me e di mia sorella, dei nostri studi, ma anche di mia madre che lo ricorda sempre con grande stima ed affetto. Ha colpito molto anche me il racconto di Bruno Dalmasso, non solo per l'orrore di tutta la sua vicenda, ma anche perché per la prima volta, qualcuno ha detto di aver visto S.E. in quel campo di prigionia dove credo abbia incontrato la morte. Mio padre andò ad Addis Abeba nel 1980, so che chiese ripetutamente del Sindaco e so anche che telefonò a sua moglie, ma purtroppo non potè fare molto altro anche perché non voleva creare problemi ai familiari che avevano seguito il loro congiunto ad Addis Abeba.
Pietro Pastore, mio padre, è morto nel 2001, e non c'è stato giorno, credo, che non ricordasse il suo amico Haregot. Quando parlava della sua ingiusta prigionia, gli occhi gli si velavano di tristezza e tristezza sentiva per quella guerra, per tutte le guerre che da sempre ci privano orribilmente delle persone e delle menti migliori.
Ricorderemo sempre il sindaco, ma soprattutto l' uomo anzi, il galantuomo, ed in un mondo come questo, credimi, non è cosa da poco.
Patrizia Pastore
(30/10/2006)


 

In seguito alla pubblicazione dell'ultima parte dei suoi Racconti, Susanna Fessahaie si era rivolta a Bruno per chiedergli quali ricordi conservasse del Nonno, dei momenti che l'aveva potuto o se l'aveva potuto contattare nei giorni di prigionia ad Addis Abeba. Ecco, sempre grazie a Franco Caparrotti, la risposta.

Caro Bruno, hai letto lo scritto di Susanna Fessahaie? Cosa gli vuoi rispondere?

Cara Susanna, sì ho visto il nostro caro Sindaco durante i miei due giorni di prigionia ad Addis Abeba. Come puoi immaginare, eravamo controllati a vista e non potevamo parlare con nessuno. Oltre al Sindaco, c’erano altre figure istituzionali molto note e molte amiche. Con Haragot eravamo amici, la sua casa confinava con il CIAAO. Ero molto amico di tuo padre Fessahie. Legavamo molto e insieme abbiamo combinato diverse “monellate”. Mi è dispiaciuto moltissimo leggere che non c’è più. Conoscevo pure tua madre e mi ricordo anche di te, magra e alta, avevi preso da papà. Mi ricordo pure di tua zia (sorella di tuo padre) che era infermiera e che si sposò con un Ufficiale di Marina.
Riguardo al nonno, devo dirti che era una persona straordinaria, integerrima e che aveva fatto tanto per la sua città e il popolo. Lui era ricco di famiglia e poteva stare tranquillamente a casa ma, la voglia di vedere Asmara crescere, renderla bella, vivibile era tanta. Il nonno era cresciuto sia con l’Amministrazione Italiana che quella Inglese. Parlava benissimo le due lingue. Come ho letto dal tuo scritto, ho visto che ci teneva molto che la nipotina leggesse e parlasse italiano.
Il nostro Sindaco ha mantenuto nel seno del Municipio tantissimi italiani, che reputava validi e fidati collaboratori. Tra questi Pastore (ho letto con piacere la lettera della figlia), il Dottor Radin, l’Ingegnere Bruno Mazzetti (Ingegnere Capo Tecnico), il segretario Culasso.
Cara Susanna devi essere orgogliosa del nonno, molto orgogliosa.
Ti faccio tanti auguri e un abbraccio calorosissimo.

Grazie Bruno per la disponibilità.

Figurati e manda un saluto a tutti i lettori del Chichingiolo.
(20/11/2006)


 
 

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