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Le mani nel cassetto del Chichingiolo
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Pesce-Filosofia è un binomio che certamente suonerà familiare a molti di voi per essere stati, negli anni sessanta e settanta, allievi del Liceo Martini di Asmara dove il Prof. (e più tardi Preside) Lino Pesce fu docente della materia. Di nostro ricordiamo, nonostante l'inesauribile fecondità dell'argomento, solo le incertezze nel calcolare la percezione del Nulla, i Prolegomeni di ogni futura metafisica (che insieme con la Ragion Pura contribuiva a votazioni abissali in pagella), la monade associata a una cipolla e la magistrale botta di sonno che ci colse in sede di maturità quando ci fu chiesto di disquisire su tale Schopenhauer e i suoi Parerga. Capimmo, a risultato acquisito e San Gennaro ringraziato, che non saremmo mai diventati filosofi: ci spaventavano le assurdità. Negli anni a venire avremmo tentato, quando l'esame di coscienza si imponeva, di riallacciare le relazioni con quel vasto disegno di schematismi, morali & idealismi, ma ci pensarono il pensiero debole e la critica del linguaggio, nel frattempo sopravvenuti, a liquidare in modo definitivo ogni nostra residua velleità.
Oggi ritroviamo il nostro "vecchio" Prof. in questi vividi ricordi dei suoi anni trascorsi ad Asmara e sul filo della narrazione siamo tornati, a tratti, suoi alunni. Quegli alunni che Lino Pesce non ha mai dimenticato e che ricorda sempre con affetto. Un affetto che, da poco-filosofi e poco-savi, ricambiamo sempre.
il C.
(1 Nov. 2004)

* * * *


Lino Pesce, nato ad Alessandria il 23.9.1925, laureato in Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino nel 1947, dal 1956 di ruolo negli Istituti Medi Superiori statali per tale materia e le altre associate, ha svolto la sua attività di docente in Italia (Alessandria presso l'Istituto Magistrale, Genova presso il Liceo Scientifico e Liceo Classico, quali sedi di maggior permanenza) e all'estero (Asmara presso il locale Liceo Scientifico); dal 1976 preside di ruolo, nello stesso tipo di Istituti (dal 1977 a Genova), fino al pensionamento nel 1982. Ha svolto anche attività di assistente, fino al trasferimento all'estero, presso la cattedra di Storia della Filosofia nella Facoltà di Lettere-Filosofia dell'Università di Genova.
E autore di contributi nelle discipline filosofiche; pubblica anche su riviste letterarie. Ha conseguito premi e segnalazioni in concorsi per poesie e prose poetiche. È socio dell'ASLA, nella cui Rivista, organo ufficiale dell'Associazione, già sono comparse sue poesie: una di queste finalista nel "18° Premio Internazionale di Poesia Sicilia '91", (Sezione inedita); nel precedente 16° Premio di Poesia (stessa Sezione) aveva ottenuto la Menzione d'onore. È stato componente della "Giuria Speciale" per il 19° Premio, indetto dall'ASLA alla memoria dei giudici Falcone e Borsellino, e in quella del 20°.
È autore del volume "Immagini e pensieri" (Asmara 1975; da cui la successiva edizione in Italia per i tipi di Rebellato). Altre sue poesie sono incluse in varie Antologie.



Gli articoli-documento "La mia Eritrea" del poeta-scrittore Lino Pesce, sono stati originariamente pubblicati a puntate dal 1995 al 1999 dalla Rivista "QUADERNI DELL'ASLA" - via Noce n. 66 - 90135 PALERMO - Telef. 091 1226.788, nella rubrica "Fatti e testimonianze".
Un ringraziamento particolare all'Autore per la gentile concessione a riproporli ai nostri lettori e Claudia Michelotti per la sua preziosa collaborazione


LA MIA ERITREA (1968-1975) (1)
di Lino Pesce

Quando arrivai ad Asmara per il primo anno scolastico - 1968/69 - dei sette che avrei trascorso là, docente di storia e di filosofia nel Liceo Scientifico "Ferdinando Martini" (ora "Guglielmo Marconi"), una delle nostre istituzioni scolastiche statali all'estero, ebbi modo di sperimentare subito l'importanza di quel rapporto scuola-ambiente sul quale insistono i trattati di pedagogia: con un'evidenza, in quel primo anno scolastico, appunto, che veramente dispensava da ogni riflessione sul tema.
Un ragazzo e sua sorella erano alunni, lui già in seconda, lei in prima, nell'unica sezione del Liceo (soltanto un anno, durante il mio settennio, avemmo due prime): ascoltavano attenti, immobili nel banco, le lezioni; chiamati alla cattedra per essere interrogati, venivano, e tacevano, né c'era verso di far loro dire una parola, nemmeno cominciando a srotolare io il gomitolo, o infine offrendo loro di riferire su un argomento a loro scelta: immobili anche accanto alla cattedra, senza, oltre a non aprir bocca, alcune reazione sul volto, ero infine costretto a rimandarli al loro posto, che raggiungevano sempre in silenzio, tra il silenzio di tutti i loro compagni.
I due ragazzi erano figli di un agricoltore italiano del bassopiano occidentale, venuto dalle rive del lago di Garda a quelle del Mar Rosso con le truppe per la conquista dell'Etiopia nel '35; trovando in quel bassopiano (l'altro, l'orientale, costeggia il mare: tra essi l'altopiano, in continuazione di quello etiopico) terra da coltivare e moglie con cui fare cinque figli, due maschi e tre femmine. Avevano anche una casa in Asmara, una bella casa, dove andai a trovare i due alunni, conoscendo così anche le sorelle, il fratello, ultimo dei cinque, e la madre: avevo saputo intanto quel che era successo.
La guerriglia cominciata nel '62 dopo l'atto di forza del Negus, che dall'anno precedente, dopo la partenza degli inglesi, con la ratifica dell'ONU era Capo, per unione personale, dei due Stati indipendenti dell'Etiopia e dell'Eritrea e invece, facendo entrare le truppe etiopiche in Asmara aveva soppresso l'indipendenza dell'Eritrea, ridotta a provincia del suo Impero - questa guerriglia, dunque, in via di diventare guerra e a concludersi con grandi battaglie in campo aperto dopo trent'anni dal suo inizio, non faceva vittime solo tra i combattenti: e non solo per le mine sulle carrarecce (il caso più frequente, per i nostri agricoltori), o per qualche raffica.
Il padre dei miei alunni era stato arrestato con l'accusa di favorire i guerriglieri. Non mi ricordo più dopo quanti mesi di una dura detenzione fu rilasciato, nel riconoscimento dell'infondatezza di quell'accusa. Morì non molto tempo dopo: il cuore non aveva retto alla prova.
Ecco perché i due fratelli, in classe, restavano in silenzio, anche quando chiamati alle interrogazioni, in quell'irreale scena del loro immobile stare accanto alla cattedra, immobili nel corpo, immobili nel volto.
Con i colleghi delle altre materie era lo stesso. Ci toccava la loro pena, mentre disperavamo, scolasticamente parlando, se continuava così, della loro sorte. Ma verso la fine del primo quadrimestre, con gioia, assistemmo al loro sblocco: incominciarono a parlare, e con la loro ripresa dimostrarono di meritare la promozione.
Ora nella mia mente entra in campo la ragazza da sola. Mentre si susseguivano, nel mio settennio, gli anni del suo quadriennio (periodo ridotto di un anno, nei nostri Istituti Medi Superiori all'estero, rispetto a quelli che in Italia hanno il corso quinquennale), accadevano cose molto importanti, per lei, e non solo per lei.

*

Mi ricordo molto vivamente di quella volta che l'incontrai, insieme ad altri studenti del Liceo, alla Kagnew Station. Con due enormi antenne paraboliche, parte, allora, del panorama di Asmara, (militari USA sentivano lo spazio e vi gettavano segnali. Ufficialmente per scopi scientifici, ma si pensava, piuttosto fondatamente, che seguissero satelliti militari, da quel punto strategico sul Mar Rosso, senza escludere altri compiti sempre di interesse militare. "Riceviamo e trasmettiamo", a quanto riferiva un italiano che li frequentava, era la loro laconica risposta alle curiosità; anche, precisava quel connazionale asmarino, quando erano ubriachi. Italiani di Asmara, esperti in qualche tecnica (ignoro se ce ne fossero pure di altre comunità straniere; più facile trovarli in quella italiana, penso, in quanto di gran lunga la più numerosa, non avendo ancora i pur continui rimpatri il ritmo travolgente che assunsero dal '75 in poi, per gli eventi bellici), lavoravano nei quattro piani sotterranei della Stazione ma venivano condotti e ricondotti con gli occhi bendati. La Kagnew Station funzionò fino a quando il Presidente Carter, nella sua politica dei diritti umani, rifiutò ulteriori aiuti al dittatore Menghistù e, come conseguenza, gl'impianti furono ritirati e nei locali subentrarono gli etiopi. Negli anni successivi alla mia partenza una catena di esplosioni distrusse i sotterranei, fosse incidente o azione dei guerriglieri: la persona vista di recente qui in Italia, dalla quale ebbi l'informazione, non era in grado di precisare.
Nel locale dei trattenimenti nell'ambito della Kagnew, dove vidi quella mia alunna, poteva ben esserci anche suo fratello, ma la mia memoria di quella volta è chiusa come a cerchio intorno a lei. Intorno a quella fanciulla che dolce e serena come da quando, ritiratosi nell'intimo il dolore, era tornata a comunicare, mi stava raccontando delle conoscenze fatte in quell'ambiente, fra i più giovani dei soldati, tra i quali c'era anche il figlio di un italiano emigrato negli Stati Uniti. Mi disse anche che quei giovani si drogavano: non esprimeva alcun giudizio di approvazione, ma il suo tono di simpatia verso di loro non si incrinava. E sorridente aggiungeva, che uno di loro era soprannominato, dagli altri del gruppo, Spidi, cioè Speedy, cioè Veloce, per il suo pronto entrare negli effetti della droga.
Trasecolavo. E dovevo vincere un'intima repellenza per mantenermi inalterato ad ascoltare. Venivo tra l'altro da un'Italia in cui, allora, il fatto della tossicodipendenza giovanile era ancora sporadico, questo contribuiva al mio turbamento, nel quale me ne tornai da quella riunione. Ma, nello stesso tempo, ricordo, non mi veniva in mente nessuna inquietudine per un possibile "contagio" della mia alunna: il tono del suo discorso, là alla Kagnew Station, come i suoi occhi sorridenti, testimoniavano soltanto, come dire, un'intrepida amicizia.

*

Passava il tempo, la studentessa era già all'ultimo anno del Liceo; e un giorno avemmo l'annuncio del suo matrimonio. Con Speedy. Speedy ormai non più Speedy, non più né veloce, né lento, su quella strada: più niente a che fare.
Capivo. Era lui, il motivo di quel calmo e affettuoso parlare. Era intrepido amore. E avrei dovuto capirlo subito. Non la droga aveva tirato dentro lei, lei ne aveva tirato fuori quel giovane. Con il suo amore. Il matrimonio ebbe luogo nella bella chiesa dei Cappuccini a Gaggiret, uno dei quartieri di Asmara, il giorno 14 febbraio del 1972. C'erano i genitori dello sposo, giunti dagli Stati Uniti, e c'era la mamma della sposa con gli altri suoi figli: altri loro parenti non conoscevo, due tuttavia si fecero riconoscere quando essi, che suppongo fossero zii della ragazza saliti dal bassopiano, lunghi e ossuti nella bianca veste che scendeva fino alle caviglie e con in testa il bianco turbante, costume dei musulmani prevalenti nei bassopiani, in capo al corridoio tra i banchi, abbracciarono il maturo signore, dalla giacca di un celeste molto tenero, come notai quando anche noi del Liceo, preside e professori, al termine della cerimonia sfilammo davanti a lui per una stretta di mano; anche l'aspetto della moglie dimostrava, al pari di quello del marito, un elevato livello sociale.
Ma gli allievi del Liceo, che dai banchi della chiesa avevano assistito al matrimonio, non avrebbero più veduto la loro compagna in quelli della classe, come invece loro, e tutti, si aspettavano, considerati i pochi mesi che ancora mancavano al termine delle lezioni e all'esame di maturità: in vista del traguardo, quella loro compagna, nonostante tutte le esortazioni, anche di noi suoi insegnanti, abbandonava la scuola, nel suo giungere all'altro, più importante traguardo.
Da Asmara ebbi notizie, alcuni anni dopo il mio rientro, che il matrimonio dell'ex-alunna si era arricchito di due bambini, in quella località degli Stati Uniti dove i due sposi erano andati ad abitare; ma quando sia avvenuta la loro partenza, al termine del servizio di lui alla Kagnew Station, se dopo poco o tanto tempo, non so, o non ricordo, nel caso fossi ancora presente.
Altri anni ancora si sono aggiunti dopo quelle notizie; e altri figli, forse: ulteriori viventi conferme, allora, al messaggio di pace irradiato da quel darsi la mano, parte del rito nuziale, ad Asmara: nella simbolica unione tra l'Europa, portata da un agricoltore venuto in divisa dalle rive del Garda, l'Africa, terra degli antenati materni della sposa, e l'America, portata da un cittadino degli States in più recente divisa: oltrepassando quei simboli, che sono invece le divise, sempre, di guerre avvenute o temute per il futuro (anche se non volute).

GHEBBRAI, ED ALTRI (2)

Se nella vicenda narrata nella prima puntata ho creduto opportuno tacere i nomi, non c'è motivo ora per non fare quello di un altro mio alunno del Liceo: Ghebrai Sebhatù (il secondo è il nome del padre, in funzione del cognome). Il tempo di conoscerlo, al Liceo, e di apprezzarlo, prima del suo passaggio all'Istituto Tecnico.
Nell'Istituto Tecnico per Ragionieri e Geometri "Vittorio Bottego" io avevo insegnato precedentemente, nell'anno scolastico 1969/1970 (e fu l'unico anno), in aggiunta al mio orario al Liceo, per due ore settimanali di storia, in una delle sue sezioni, che erano tre per i Ragionieri e due per i Geometri, anche se non tutte sempre complete. Superavano sempre però di molto l'unica sezione del Liceo, il quale ebbe, durante il mio settennio, un anno soltanto due prime, come già osservavo nel precedente articolo, con un totale annuale di alunni intorno ai cento; all'Istituto Tecnico invece raggiungeva i trecento.
Se al Liceo gli alunni eran quasi tutti italiani, pochi essendo gli eritrei, oltre a qualche raro rappresentante di comunità, o famiglie, di altre nazionalità, all'Istituto Tecnico la maggioranza era di eritrei. Se erano tanti, è perché tanti di loro erano poveri: vedevano nel diploma la speranza di trovar subito un lavoro, ed un migliore vivere.
Questa loro speranza aveva, nei primi anni della mia permanenza, il suo eloquente simbolo nello studente, dell'Istituto Tecnico appunto, che la sera studiava sotto un lampione, sul marciapiede. Già me ne avevano parlato, e una volta lo vidi, sul Iato opposto della via, all'angolo di essa con un largo viale, dove nel marciapiede s'impiantava l'alto stelo che, biforcandosi elegantemente con le sue vivide capocchie a mezz'arco una verso l'asfalto e l'altra verso il marciapiede stesso, faceva beneficiare ottimamente anche questo della moderna illuminazione di Asmara.
Lo studente eritreo, il corpo steso dalla parte del viale, arrivava con il capo presso la base del lampione, di modo che il viso era rivolto verso la via per la quale, sul marciapiede opposto, mi stavo avvicinando, senza che egli tuttavia desse segno di essersi accorto di me, giunto in quella zona periferica in cui, nell'ora prossima al crepuscolo, non c'erano altri passanti: con una coperta addosso (a sera, ritirandosi il sole che infuoca le ore centrali del giorno, all'altitudine di Asmara - mt. 2347 - fa frescolino), il gomito del braccio destro piegato a reggere il capo, gli occhi erano intenti sulla pagina del libro, riconoscibile per un testo scolastico, che era tenuto aperto sul marciapiede con le dita della mano sinistra.

*

Pur non dimostrando la necessità, come faceva questo studente, di ricorrere ai pubblici fanali per studiare, i molti tra gli studenti dell'Istituto Tecnico che erano poveri non erano di molto meno poveri. Tra essi entrava Ghebrai. Provenivano, lui e il fratello frequentante la Scuola Media, anch'essa italiana, l'"Alessandro Volta", dalla campagna; la famiglia era molto povera, e i sacrifici per consentire gli studi ai due figli, grandissimi. Anche l'insuccesso scolastico, dopo il primo anno di frequenza al Liceo, in conseguenza del quale Ghebrai decide di non insistere, è da ascrivere alle condizioni di estremo disagio di tutto il suo percorso scolastico. Durante quell'anno, avevo avuto modo di conoscere quel giovane serio e pensoso, capace di intendere valori e problemi, come confermò di essere nei contatti che continuò ad avere con me anche dopo il suo passaggio all'Istituto Tecnico.
Venendomi incontro sul cammino che facevo per tornare a casa dalla nuova sede del Liceo (la precedente, più in centro, era in comune con l'Istituto Tecnico; in questa nuova, dietro il nostro Consolato di cui era proprietà, il Liceo si trasferì con l'anno scolastico 1971/72; in essa Ghebrai frequentò quel suo unico anno), quando c'era coincidenza negli orari di uscita, e ben volentieri consentendo io al desiderio, che aveva espresso, di accompagnarmi, mi rivolgeva tante domande, denotanti un vivo interesse per l'ordinamento dello Stato italiano, espresso nella nostra Costituzione: una continuazione ambulante delle lezioni di Educazione Civica, la materia che, in tutte le scuole italiane, è unita alla Storia.
Lieto di questo interesse per i nostri ordinamenti io rispondevo, ma ancor più lieto ero di aiutarlo, copertamente, al riconoscimento e all'amore del principio ispiratore, presente dovunque ci sia, sul nostro globo, uno sforzo autentico affinché la società umana sia umana, il principio, cioè, per cui quella libertà che è il nome dell'uomo sia sempre aiuto e mai ostacolo alla libertà di un'altro uomo: in definitiva, la libertà come capacità di amore; non arrendendosi, come giustificazione della legge, al mero calcolo della convenienza, ma andando oltre per rivelare tutto l'uomo. Mai nel mio insegnamento, difatti - e quindi nemmeno all'Asmara, dove anche Ghebrai mi ascoltò, prima dalla cattedra e poi per la strada - diedi per perfetta la nostra Costituzione, anche se ci poteva lusingare, al suo apparire, il giudizio che osservatori esteri ne facevano, come della più avanzata; ma necessitante, così come ogni Costituzione, di miglioramenti, ogni volta che il progresso della coscienza civile la avverte in tutto o in parte inadeguata: nello sforzo, appunto, di una sempre meno imperfetta adeguazione, considerata l'imperfezione umana, e quello che nell'uomo è contro l'uomo; sforzo che, naturalmente, sarebbe vano, trovasse anche la definitiva perfezione, ove non fosse seguito dall'impegno all'interno della coscienza di ciascuno, di rispettare nelle leggi l'accettato patto di convivenza che nella Costituzione ha la sua espressione. Se tutto questo, allora, al di là di tutte le avvenute e possibili falsificazioni del termine lo chiamiamo democrazia, sintetizzando possiamo definire democrazia là dove è possibile lavorare per la democrazia. Possibile legalmente, senza incorrere in sanzioni e temere pericoli, magari per la vita stessa.
Ma questo nell'Eritrea di quegli anni non era possibile, la condizione di soggezione all'Etiopia, anche se formalmente di questa stessa costituiva una parte, ne faceva mancare il presupposto di libertà. Pertanto, parlavo copertamente di libertà e democrazia con Ghebrai, sotto apparenza di una semplice, anche se diligente, esposizione della forma dello Stato italiano. Tanto più che io ero nella posizione delicata dello straniero, e dello straniero che parla da una cattedra, anche quando conversa per istrada (da tener presente pensando alle autorità, perché, psicologicamente, io non mi sentivo davvero straniero, nell'ambiente italiano che mi circondava, dove anche gli eritrei con cui avevo occasione di parlare si esprimevano in italiano).

*

I contatti con Ghebrai cessarono nel novembre 1974. In quell'anno mi fece dono di una sua foto, che lo ritrae in una via di Asmara, e porta sul retro la data, 16-1-74. Una foto formato cartolina, dalla quale mi guarda col suo sguardo pensoso, e melanconico. Una volta che venne a casa mia con un suo compagno dell'Istituto Tecnico, mi disse che suo padre era malato.
Dopo qualche tempo ricevetti una lettera di Ghebrai. Non per mezzo della posta, significandomi egli, con nobilissimi accenti, la decisione di unirsi ai combattenti per la liberazione della sua patria. Non c'era da stupirsi, allora, se, nella stessa lettera, mi ricordava i nostri dialoghi cammin facendo per dirmi che il suo scopo segreto era quello di procurarsi elementi per la sua formazione di cittadino, al fine di concorrere al futuro sviluppo di quello Stato eritreo, per la cui resurrezione egli era disposto, tuttavia, come dimostrava con l'annunciata decisione, a dare la vita. Il suo segreto scopo, dunque, coincideva con quello, anch'esso segreto, come ho già detto, che avevo io in quel nostro discorrere sulla strada del mio ritorno dal "Martini". Ottima coincidenza, e per niente casuale.
Dopo un altro po' di tempo mi arrivò un'altra lettera di Ghebrai, e più che mai non era il caso di servirsi della posta. In essa, infatti, mi dava notizia dell'avvenuto suo trasferimento tra i guerriglieri, che a quell'epoca avevano già un notevole predominio nelle campagne; e in quest'ultimo segno che ebbi da lui e di lui, tornava l'incondizionata dedizione alla causa della liberazione del suo Paese.
Con questi sentimenti, certamente Ghebrai si era trovato bene all'Istituto Tecnico. Quando, precedentemente all'arrivo in esso del mio ex alunno, vi ero stato per quelle due ore settimanali di storia, esse mi bastarono ad avvertire nella sua intensità l'atmosfera del patriottismo eritreo fatto di sofferenza sotto l'oppressione. Ero nella quarta "A Geometri", ultima quindi del corso quadriennale vigente all'estero per gli istituti medi superiori che in Italia sono quinquennali (già ho menzionato questa riduzione nel precedente articolo "La mia Eritrea") ed il programma di storia riguardava l'età contemporanea, tale definizione comprendendo i fatti e le idee dall'inizio dell'Ottocento in poi. Trattando del nostro Risorgimento, o delle analoghe lotte per l'indipendenza di altri popoli, nel generale risveglio del sentimento nazionale, fino alle cronache recenti in via di farsi storia, di nuove oppressioni e nuove lotte, gli occhi di quei rispettosissimi alunni si facevano intenti.
Ma quello che loro mi dicevano con gli occhi, ebbi pur occasione di udirlo dalla bocca di un altro studente, sempre dell'Istituto ma non di quella classe e non in quell'anno; uno studente intelligente e sensibile, che aveva familiarità con alcuni professori della sua scuola, insieme ai quali quella volta mi trovavo: "E come voi con gli Austriaci! ". E bisognava sentire come scaricava nell'ultimo termine, per farsi capire, la sua passione di eritreo. Ma non era solo degli eritrei, come avevo pur avvertito in quella mia classe del 1969/70 dal modo dell'ascolto, la partecipazione alla causa dell'indipendenza: era anche, al "Bottego", dei loro compagni italiani, specialmente di quelli, com'è naturale, di madre eritrea.
E la partecipazione, tra gli studenti dell'Istituto Tecnico "Bottego", non era solo affettiva, come dimostrò, pistola in pugno, quell'ufficiale etiopico che il professore incaricato in quegli anni della presidenza, già mio collega al " Martini ", dovette accompagnare ai piedi dello scalone per il quale scendevano, alla fine delle lezioni di un giorno del gennaio 1975, gli studenti, e quindi assistere all'arresto di uno di essi, condotto via tra i soldati venuti con l'ufficiale (le scuole all'estero non godono della extra-territorialità).
Di quello studente, del cui triste caso fu lo stesso preside ad informarmi, non seppi altro: alla fine di quel mese ci furono in Asmara i fatti a cui gli italiani residenti diedero il nome di "guerra"; i quali comportarono la chiusura anticipata dell'anno scolastico, quanto alle lezioni; perché poi gli esami di maturità al liceo e all'Istituto Tecnico, come quelli di licenza alla Scuola Media, si tennero, come al solito, in giugno. E fu durante lo svolgimento di tali esami in quell'Istituto che io ebbi un'ulteriore dimostrazione della partecipazione non solo affettiva degli studenti di tale scuola alla lotta per la liberazione dell'Eritrea. Non tragica come la precedente (in quanto tutto era da temere per gli arrestati), essendoci di mezzo non un'arma ma solo l'allusione a un'arma.
Avendo ricevuto anch'io, per quell'anno scolastico, ultimo del mio settennio, l'incarico della presidenza del Liceo, me ne derivò infatti la nomina a presidente della commissione al "Bottego" (l'unico presidente venuto dall'Italia quell'anno fu quello per la Commissione del Liceo: gli anni precedenti, i presidenti erano sempre stati nominati anche per l'Istituto Tecnico, insieme ad alcuni commissari che variavano di numero, concorrendo a formare le commissioni i docenti classi da esaminare; ma quell'anno di commissari non ne venne nessuno; per il Liceo mancavano anche, per la sostituzione, tutti i miei colleghi, non più tornati da Addis Abeba dove il Consolato italiano nei giorni del pericolo ci aveva trasferito, sicché operarono, con quell'unico presidente mandato dall'Italia, laureati della Comunità italiana asmarina, per esaminare quella parte di candidati presenti: gli altri, riparati anch'essi ad Addis Abeba, sostennero l'esame colà, davanti ad un'altra commissione; ma per Asmara il motivo delle rinunce alla nomina in commissione fu una prudenza ritenuta molto salutare, per le notizie dei fatti intercorsi, nella città e nel territorio) - presiedendo dunque quella commissione, venne il giorno in cui, tra i candidati da esaminare, c'era anche Mussiè; non avendo risposta quando lo chiamai, chiesi: "Dov'è Mussiè?". Rispondendo allora per lui un'altro candidato, da una sedia della prima fila (eravamo nell'aula magna al pian terreno, in comune con la B.I.A., la Biblioteca Italiana di Asmara, la quale utilizzava l'ampio salone per manifestazioni culturali), c'erano infatti non solo i candidati in attesa del loro turno, ma tutti, o quasi tutti, gli alunni di quella classe d'esame: fece il gesto di una raffica, con l'avambraccio sinistro - ricordo - e la mano chiusa come se impugnasse la mitraglietta; non senza qualche mia apprensione (ma evidentemente quel giovane non temeva spie tra i suoi compagni), Mussiè come Ghebrai, come tanti altri giovani, studenti e non studenti, era a combattere per l'indipendenza dell'Eritrea.
Questa lotta doveva durare a lungo.

*

Quando io arrivavo ad Asmara per cominciare il mio settennio di servizio all'estero con l'anno scolastico 1968/69, erano sei anni che era cominciata, progredendo via via, dopo il primo inizio di cinque o sei uomini armati di vecchi fucili, come in quegli anni venni ad apprendere. Immediata anche se germinale risposta, quindi, nel '62, all'atto di forza compiuto dall'imperatore d'Etiopia in quell'anno.
Dopo la partenza degli inglesi, sotto la cui amministrazione era stata l'Eritrea dal 1942 al 1952, consecutivamente alla loro vittoria nel corso del secondo conflitto mondiale, e il successivo decennio (erroneamente, nel far cenno a queste vicende all'inizio dell'articolo di questa serie già pubblicato, risulta scritto "dall'anno precedente") di federazione con l'Etiopia, si sarebbe dovuto svolgere, secondo il programma approvato dalle Nazioni Unite che ne impegnavano il Negus, il referendum tra gli eritrei per decidere se continuare nella federazione o costituirsi in piena indipendenza. Hailè Sellassiè (per la storia d'Africa, incoronato Negus d'Etiopia, succedette - 2 agosto 1930 - alla zia, l'imperatrice Zauditù, prendendo nome di imperatore Hailé Selassié I), invece, facendo intervenire l'esercito, pose fine al Parlamento e Governo eritrei e, a legittimazione del fatto compiuto, gli eritrei furono chiamati a pronunciarsi sull'unione con l'Etiopia.
Se il risultato gli fu favorevole, con una maggioranza per l'unione, rispetto alla proposta indipendentistica, e all'altra, pur presente, pro-Italia, esso non va tuttavia attribuito per intero alla rassegnazione, stante la preponderanza etiopica: la comunanza di origine, secoli prima di Cristo, per la fusione tra genti africane ed altre sopraggiunte di tipo europeo, quella della cultura, connessa alla precedente, specialmente per le migrazioni dalla parte meridionale della penisola arabica, infine quella della religione, il cristianesimo copto, giocavano a favore dell'appello all'unità. Ma quei richiami inaridirono alla dimostrazione, subito offerta, di un potere oppressivo e, sull'economia, depressivo, in una regione che in quasi settant'anni di presenza italiana, periodo coloniale e post-coloniale, aveva ricevuto, nonostante aspetti negativi nel primo, un rilevante contributo al suo sviluppo per le doti, oltre che di umanità, di laboriosità anche là agli italiani riconosciute (con sentimenti anche - ne fui testimone nel bidello anziano del nostro Liceo - di nostalgia); sviluppo che la poneva ad un livello ben superiore a quello dell'Etiopia, tanto da dar credito alla voce, che sentivo, essere intenzione del Negus di abbassare l'Eritrea, la nuova provincia del suo impero, al livello delle altre (dove pure il quinquennio italiano - 1936-1941- aveva avuto uno straordinario effetto, ma, si capisce, in proporzione a quel brevissimo tempo concesso dagli avvenimenti).
Ora, invece, gli effetti della cattiva amministrazione, sommandosi a quelli delle calamità naturali, tra cui la progrediente siccità, che nel '70 fece pensare all'evacuazione di Asmara, correvano al disastro, aumentato sempre più, come si comprende, dalle devastazioni di una guerra lunga e sempre più feroce, nell'impossibilità per gli etiopi di soffocare quella ribellione, robustissimo sviluppo, nelle condizioni descritte, di quel primo germe del '62, per il colpo di mano negussita, contro il programma degli eritrei, approvato dall'ONU, ma non senza appoggi internazionali, perdurando la tensione tra i blocchi, alla quale si connettevano, in quel momento, i timori di uno "sconfinamento" di un nuovo Stato dell'Eritrea, essendo allora l'Etiopia del Negus amica dell'Occidente.
Il passaggio dal secolare Stato feudale del Negus (un italiano di Asmara mi raccontava, per esserne stato testimone oculare, del volto attonito di un etiope in una regione dell'impero effimeramente conquistato, guardandosi nelle mani il denaro ricevuto per l'opera prestata, come non gli era mai capitato) a quello inaugurato dal Derg, con la rivoluzione nel '74 dei militari intenzionati ad un radicale comunismo, non smobilitò la ribellione eritrea: nonostante il ritrovarsi ora, per quella rivoluzione, le due parti in conflitto nella stessa area ideologica; e invano radio e giornali ripetevano gli appelli della nuova dirigenza, sul motivo conduttore: "Contro il regime feudale naturalmente sì, ma ora quel regime è caduto, non c'è più motivo". Le trattative furono senza esito.
Si arrivò così al gennaio del 1975, con il primo tentativo, da parte del Fronte di liberazione (composto dal F.L.E. - Fronte di liberazione Eritreo, e del F.L.E.-F.P. - Fronte di Liberazione Eritreo Forze Popolari), già padrone delle campagne, di impadronirsi di Asmara.
Il 20 di quel mese annotavo (lo stampatello è di allora): "Scontro previsto per FINE GENNAIO (ora un comitato è ancora in trattative). I patrioti vogliono l'indipendenza, il governo centrale al massimo concede la federazione".
"Per fine gennaio ": e così fu! Il tentativo (iniziato la sera del 31) fallì, ma le conseguenze furono grandi e gravi, anche per la comunità italiana, che già avevamo notato, noi delle scuole giunti nel '68, come fosse diminuita, rispetto a quando, al nostro arrivo, la vedevamo popolare numerosa le strade di Asmara; nel '75 ci fu un esodo in massa, come già detto nella prima puntata; con una notevole ripercussione, naturalmente, sul nostro complesso scolastico, il più importante, fino a quei giorni, tra gli altri nostri all'estero.

(Continua)

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