LA
MIA ERITREA (1968-1975) (1)
di Lino Pesce
Quando arrivai
ad Asmara per il primo anno scolastico - 1968/69 - dei sette che avrei
trascorso là, docente di storia e di filosofia nel Liceo Scientifico
"Ferdinando Martini" (ora "Guglielmo Marconi"),
una delle nostre istituzioni scolastiche statali all'estero, ebbi modo
di sperimentare subito l'importanza di quel rapporto scuola-ambiente
sul quale insistono i trattati di pedagogia: con un'evidenza, in quel
primo anno scolastico, appunto, che veramente dispensava da ogni riflessione
sul tema.
Un ragazzo e sua sorella erano alunni, lui già in seconda, lei
in prima, nell'unica sezione del Liceo (soltanto un anno, durante il
mio settennio, avemmo due prime): ascoltavano attenti, immobili nel
banco, le lezioni; chiamati alla cattedra per essere interrogati, venivano,
e tacevano, né c'era verso di far loro dire una parola, nemmeno
cominciando a srotolare io il gomitolo, o infine offrendo loro di riferire
su un argomento a loro scelta: immobili anche accanto alla cattedra,
senza, oltre a non aprir bocca, alcune reazione sul volto, ero infine
costretto a rimandarli al loro posto, che raggiungevano sempre in silenzio,
tra il silenzio di tutti i loro compagni.
I due ragazzi erano figli di un agricoltore italiano del bassopiano
occidentale, venuto dalle rive del lago di Garda a quelle del Mar Rosso
con le truppe per la conquista dell'Etiopia nel '35; trovando in quel
bassopiano (l'altro, l'orientale, costeggia il mare: tra essi l'altopiano,
in continuazione di quello etiopico) terra da coltivare e moglie con
cui fare cinque figli, due maschi e tre femmine. Avevano anche una casa
in Asmara, una bella casa, dove andai a trovare i due alunni, conoscendo
così anche le sorelle, il fratello, ultimo dei cinque, e la madre:
avevo saputo intanto quel che era successo.
La guerriglia cominciata nel '62 dopo l'atto di forza del Negus, che
dall'anno precedente, dopo la partenza degli inglesi, con la ratifica
dell'ONU era Capo, per unione personale, dei due Stati indipendenti
dell'Etiopia e dell'Eritrea e invece, facendo entrare le truppe etiopiche
in Asmara aveva soppresso l'indipendenza dell'Eritrea, ridotta a provincia
del suo Impero - questa guerriglia, dunque, in via di diventare guerra
e a concludersi con grandi battaglie in campo aperto dopo trent'anni
dal suo inizio, non faceva vittime solo tra i combattenti: e non solo
per le mine sulle carrarecce (il caso più frequente, per i nostri
agricoltori), o per qualche raffica.
Il padre dei miei alunni era stato arrestato con l'accusa di favorire
i guerriglieri. Non mi ricordo più dopo quanti mesi di una dura
detenzione fu rilasciato, nel riconoscimento dell'infondatezza di quell'accusa.
Morì non molto tempo dopo: il cuore non aveva retto alla prova.
Ecco perché i due fratelli, in classe, restavano in silenzio,
anche quando chiamati alle interrogazioni, in quell'irreale scena del
loro immobile stare accanto alla cattedra, immobili nel corpo, immobili
nel volto.
Con i colleghi delle altre materie era lo stesso. Ci toccava la loro
pena, mentre disperavamo, scolasticamente parlando, se continuava così,
della loro sorte. Ma verso la fine del primo quadrimestre, con gioia,
assistemmo al loro sblocco: incominciarono a parlare, e con la loro
ripresa dimostrarono di meritare la promozione.
Ora nella mia mente entra in campo la ragazza da sola. Mentre si susseguivano,
nel mio settennio, gli anni del suo quadriennio (periodo ridotto di
un anno, nei nostri Istituti Medi Superiori all'estero, rispetto a quelli
che in Italia hanno il corso quinquennale), accadevano cose molto importanti,
per lei, e non solo per lei.
*
Mi ricordo
molto vivamente di quella volta che l'incontrai, insieme ad altri studenti
del Liceo, alla Kagnew Station. Con due enormi antenne paraboliche,
parte, allora, del panorama di Asmara, (militari USA sentivano lo spazio
e vi gettavano segnali. Ufficialmente per scopi scientifici, ma si pensava,
piuttosto fondatamente, che seguissero satelliti militari, da quel punto
strategico sul Mar Rosso, senza escludere altri compiti sempre di interesse
militare. "Riceviamo e trasmettiamo", a quanto riferiva un
italiano che li frequentava, era la loro laconica risposta alle curiosità;
anche, precisava quel connazionale asmarino, quando erano ubriachi.
Italiani di Asmara, esperti in qualche tecnica (ignoro se ce ne fossero
pure di altre comunità straniere; più facile trovarli
in quella italiana, penso, in quanto di gran lunga la più numerosa,
non avendo ancora i pur continui rimpatri il ritmo travolgente che assunsero
dal '75 in poi, per gli eventi bellici), lavoravano nei quattro piani
sotterranei della Stazione ma venivano condotti e ricondotti con gli
occhi bendati. La Kagnew Station funzionò fino a quando il Presidente
Carter, nella sua politica dei diritti umani, rifiutò ulteriori
aiuti al dittatore Menghistù e, come conseguenza, gl'impianti
furono ritirati e nei locali subentrarono gli etiopi. Negli anni successivi
alla mia partenza una catena di esplosioni distrusse i sotterranei,
fosse incidente o azione dei guerriglieri: la persona vista di recente
qui in Italia, dalla quale ebbi l'informazione, non era in grado di
precisare.
Nel locale dei trattenimenti nell'ambito della Kagnew, dove vidi quella
mia alunna, poteva ben esserci anche suo fratello, ma la mia memoria
di quella volta è chiusa come a cerchio intorno a lei. Intorno
a quella fanciulla che dolce e serena come da quando, ritiratosi nell'intimo
il dolore, era tornata a comunicare, mi stava raccontando delle conoscenze
fatte in quell'ambiente, fra i più giovani dei soldati, tra i
quali c'era anche il figlio di un italiano emigrato negli Stati Uniti.
Mi disse anche che quei giovani si drogavano: non esprimeva alcun giudizio
di approvazione, ma il suo tono di simpatia verso di loro non si incrinava.
E sorridente aggiungeva, che uno di loro era soprannominato, dagli altri
del gruppo, Spidi, cioè Speedy, cioè Veloce, per il suo
pronto entrare negli effetti della droga.
Trasecolavo. E dovevo vincere un'intima repellenza per mantenermi inalterato
ad ascoltare. Venivo tra l'altro da un'Italia in cui, allora, il fatto
della tossicodipendenza giovanile era ancora sporadico, questo contribuiva
al mio turbamento, nel quale me ne tornai da quella riunione. Ma, nello
stesso tempo, ricordo, non mi veniva in mente nessuna inquietudine per
un possibile "contagio" della mia alunna: il tono del suo
discorso, là alla Kagnew Station, come i suoi occhi sorridenti,
testimoniavano soltanto, come dire, un'intrepida amicizia.
*
Passava
il tempo, la studentessa era già all'ultimo anno del Liceo; e
un giorno avemmo l'annuncio del suo matrimonio. Con Speedy. Speedy ormai
non più Speedy, non più né veloce, né lento,
su quella strada: più niente a che fare.
Capivo. Era lui, il motivo di quel calmo e affettuoso parlare. Era intrepido
amore. E avrei dovuto capirlo subito. Non la droga aveva tirato dentro
lei, lei ne aveva tirato fuori quel giovane. Con il suo amore. Il matrimonio
ebbe luogo nella bella chiesa dei Cappuccini a Gaggiret, uno dei quartieri
di Asmara, il giorno 14 febbraio del 1972. C'erano i genitori dello
sposo, giunti dagli Stati Uniti, e c'era la mamma della sposa con gli
altri suoi figli: altri loro parenti non conoscevo, due tuttavia si
fecero riconoscere quando essi, che suppongo fossero zii della ragazza
saliti dal bassopiano, lunghi e ossuti nella bianca veste che scendeva
fino alle caviglie e con in testa il bianco turbante, costume dei musulmani
prevalenti nei bassopiani, in capo al corridoio tra i banchi, abbracciarono
il maturo signore, dalla giacca di un celeste molto tenero, come notai
quando anche noi del Liceo, preside e professori, al termine della cerimonia
sfilammo davanti a lui per una stretta di mano; anche l'aspetto della
moglie dimostrava, al pari di quello del marito, un elevato livello
sociale.
Ma gli allievi del Liceo, che dai banchi della chiesa avevano assistito
al matrimonio, non avrebbero più veduto la loro compagna in quelli
della classe, come invece loro, e tutti, si aspettavano, considerati
i pochi mesi che ancora mancavano al termine delle lezioni e all'esame
di maturità: in vista del traguardo, quella loro compagna, nonostante
tutte le esortazioni, anche di noi suoi insegnanti, abbandonava la scuola,
nel suo giungere all'altro, più importante traguardo.
Da Asmara ebbi notizie, alcuni anni dopo il mio rientro, che il matrimonio
dell'ex-alunna si era arricchito di due bambini, in quella località
degli Stati Uniti dove i due sposi erano andati ad abitare; ma quando
sia avvenuta la loro partenza, al termine del servizio di lui alla Kagnew
Station, se dopo poco o tanto tempo, non so, o non ricordo, nel caso
fossi ancora presente.
Altri anni ancora si sono aggiunti dopo quelle notizie; e altri figli,
forse: ulteriori viventi conferme, allora, al messaggio di pace irradiato
da quel darsi la mano, parte del rito nuziale, ad Asmara: nella simbolica
unione tra l'Europa, portata da un agricoltore venuto in divisa dalle
rive del Garda, l'Africa, terra degli antenati materni della sposa,
e l'America, portata da un cittadino degli States in più recente
divisa: oltrepassando quei simboli, che sono invece le divise, sempre,
di guerre avvenute o temute per il futuro (anche se non volute).
GHEBBRAI,
ED ALTRI (2)
Se nella
vicenda narrata nella prima puntata ho creduto opportuno tacere i nomi,
non c'è motivo ora per non fare quello di un altro mio alunno
del Liceo: Ghebrai Sebhatù (il secondo è il nome del padre,
in funzione del cognome). Il tempo di conoscerlo, al Liceo, e di apprezzarlo,
prima del suo passaggio all'Istituto Tecnico.
Nell'Istituto Tecnico per Ragionieri e Geometri "Vittorio Bottego"
io avevo insegnato precedentemente, nell'anno scolastico 1969/1970 (e
fu l'unico anno), in aggiunta al mio orario al Liceo, per due ore settimanali
di storia, in una delle sue sezioni, che erano tre per i Ragionieri
e due per i Geometri, anche se non tutte sempre complete. Superavano
sempre però di molto l'unica sezione del Liceo, il quale ebbe,
durante il mio settennio, un anno soltanto due prime, come già
osservavo nel precedente articolo, con un totale annuale di alunni intorno
ai cento; all'Istituto Tecnico invece raggiungeva i trecento.
Se al Liceo gli alunni eran quasi tutti italiani, pochi essendo gli
eritrei, oltre a qualche raro rappresentante di comunità, o famiglie,
di altre nazionalità, all'Istituto Tecnico la maggioranza era
di eritrei. Se erano tanti, è perché tanti di loro erano
poveri: vedevano nel diploma la speranza di trovar subito un lavoro,
ed un migliore vivere.
Questa loro speranza aveva, nei primi anni della mia permanenza, il
suo eloquente simbolo nello studente, dell'Istituto Tecnico appunto,
che la sera studiava sotto un lampione, sul marciapiede. Già
me ne avevano parlato, e una volta lo vidi, sul Iato opposto della via,
all'angolo di essa con un largo viale, dove nel marciapiede s'impiantava
l'alto stelo che, biforcandosi elegantemente con le sue vivide capocchie
a mezz'arco una verso l'asfalto e l'altra verso il marciapiede stesso,
faceva beneficiare ottimamente anche questo della moderna illuminazione
di Asmara.
Lo studente eritreo, il corpo steso dalla parte del viale, arrivava
con il capo presso la base del lampione, di modo che il viso era rivolto
verso la via per la quale, sul marciapiede opposto, mi stavo avvicinando,
senza che egli tuttavia desse segno di essersi accorto di me, giunto
in quella zona periferica in cui, nell'ora prossima al crepuscolo, non
c'erano altri passanti: con una coperta addosso (a sera, ritirandosi
il sole che infuoca le ore centrali del giorno, all'altitudine di Asmara
- mt. 2347 - fa frescolino), il gomito del braccio destro piegato a
reggere il capo, gli occhi erano intenti sulla pagina del libro, riconoscibile
per un testo scolastico, che era tenuto aperto sul marciapiede con le
dita della mano sinistra.
*
Pur non
dimostrando la necessità, come faceva questo studente, di ricorrere
ai pubblici fanali per studiare, i molti tra gli studenti dell'Istituto
Tecnico che erano poveri non erano di molto meno poveri. Tra essi entrava
Ghebrai. Provenivano, lui e il fratello frequentante la Scuola Media,
anch'essa italiana, l'"Alessandro Volta", dalla campagna;
la famiglia era molto povera, e i sacrifici per consentire gli studi
ai due figli, grandissimi. Anche l'insuccesso scolastico, dopo il primo
anno di frequenza al Liceo, in conseguenza del quale Ghebrai decide
di non insistere, è da ascrivere alle condizioni di estremo disagio
di tutto il suo percorso scolastico. Durante quell'anno, avevo avuto
modo di conoscere quel giovane serio e pensoso, capace di intendere
valori e problemi, come confermò di essere nei contatti che continuò
ad avere con me anche dopo il suo passaggio all'Istituto Tecnico.
Venendomi incontro sul cammino che facevo per tornare a casa dalla nuova
sede del Liceo (la precedente, più in centro, era in comune con
l'Istituto Tecnico; in questa nuova, dietro il nostro Consolato di cui
era proprietà, il Liceo si trasferì con l'anno scolastico
1971/72; in essa Ghebrai frequentò quel suo unico anno), quando
c'era coincidenza negli orari di uscita, e ben volentieri consentendo
io al desiderio, che aveva espresso, di accompagnarmi, mi rivolgeva
tante domande, denotanti un vivo interesse per l'ordinamento dello Stato
italiano, espresso nella nostra Costituzione: una continuazione ambulante
delle lezioni di Educazione Civica, la materia che, in tutte le scuole
italiane, è unita alla Storia.
Lieto di questo interesse per i nostri ordinamenti io rispondevo, ma
ancor più lieto ero di aiutarlo, copertamente, al riconoscimento
e all'amore del principio ispiratore, presente dovunque ci sia, sul
nostro globo, uno sforzo autentico affinché la società
umana sia umana, il principio, cioè, per cui quella libertà
che è il nome dell'uomo sia sempre aiuto e mai ostacolo alla
libertà di un'altro uomo: in definitiva, la libertà come
capacità di amore; non arrendendosi, come giustificazione della
legge, al mero calcolo della convenienza, ma andando oltre per rivelare
tutto l'uomo. Mai nel mio insegnamento, difatti - e quindi nemmeno all'Asmara,
dove anche Ghebrai mi ascoltò, prima dalla cattedra e poi per
la strada - diedi per perfetta la nostra Costituzione, anche se ci poteva
lusingare, al suo apparire, il giudizio che osservatori esteri ne facevano,
come della più avanzata; ma necessitante, così come ogni
Costituzione, di miglioramenti, ogni volta che il progresso della coscienza
civile la avverte in tutto o in parte inadeguata: nello sforzo, appunto,
di una sempre meno imperfetta adeguazione, considerata l'imperfezione
umana, e quello che nell'uomo è contro l'uomo; sforzo che, naturalmente,
sarebbe vano, trovasse anche la definitiva perfezione, ove non fosse
seguito dall'impegno all'interno della coscienza di ciascuno, di rispettare
nelle leggi l'accettato patto di convivenza che nella Costituzione ha
la sua espressione. Se tutto questo, allora, al di là di tutte
le avvenute e possibili falsificazioni del termine lo chiamiamo democrazia,
sintetizzando possiamo definire democrazia là dove è possibile
lavorare per la democrazia. Possibile legalmente, senza incorrere in
sanzioni e temere pericoli, magari per la vita stessa.
Ma questo nell'Eritrea di quegli anni non era possibile, la condizione
di soggezione all'Etiopia, anche se formalmente di questa stessa costituiva
una parte, ne faceva mancare il presupposto di libertà. Pertanto,
parlavo copertamente di libertà e democrazia con Ghebrai, sotto
apparenza di una semplice, anche se diligente, esposizione della forma
dello Stato italiano. Tanto più che io ero nella posizione delicata
dello straniero, e dello straniero che parla da una cattedra, anche
quando conversa per istrada (da tener presente pensando alle autorità,
perché, psicologicamente, io non mi sentivo davvero straniero,
nell'ambiente italiano che mi circondava, dove anche gli eritrei con
cui avevo occasione di parlare si esprimevano in italiano).
*
I contatti
con Ghebrai cessarono nel novembre 1974. In quell'anno mi fece dono
di una sua foto, che lo ritrae in una via di Asmara, e porta sul retro
la data, 16-1-74. Una foto formato cartolina, dalla quale mi guarda
col suo sguardo pensoso, e melanconico. Una volta che venne a casa mia
con un suo compagno dell'Istituto Tecnico, mi disse che suo padre era
malato.
Dopo qualche tempo ricevetti una lettera di Ghebrai. Non per mezzo della
posta, significandomi egli, con nobilissimi accenti, la decisione di
unirsi ai combattenti per la liberazione della sua patria. Non c'era
da stupirsi, allora, se, nella stessa lettera, mi ricordava i nostri
dialoghi cammin facendo per dirmi che il suo scopo segreto era quello
di procurarsi elementi per la sua formazione di cittadino, al fine di
concorrere al futuro sviluppo di quello Stato eritreo, per la cui resurrezione
egli era disposto, tuttavia, come dimostrava con l'annunciata decisione,
a dare la vita. Il suo segreto scopo, dunque, coincideva con quello,
anch'esso segreto, come ho già detto, che avevo io in quel nostro
discorrere sulla strada del mio ritorno dal "Martini". Ottima
coincidenza, e per niente casuale.
Dopo un altro po' di tempo mi arrivò un'altra lettera di Ghebrai,
e più che mai non era il caso di servirsi della posta. In essa,
infatti, mi dava notizia dell'avvenuto suo trasferimento tra i guerriglieri,
che a quell'epoca avevano già un notevole predominio nelle campagne;
e in quest'ultimo segno che ebbi da lui e di lui, tornava l'incondizionata
dedizione alla causa della liberazione del suo Paese.
Con questi sentimenti, certamente Ghebrai si era trovato bene all'Istituto
Tecnico. Quando, precedentemente all'arrivo in esso del mio ex alunno,
vi ero stato per quelle due ore settimanali di storia, esse mi bastarono
ad avvertire nella sua intensità l'atmosfera del patriottismo
eritreo fatto di sofferenza sotto l'oppressione. Ero nella quarta "A
Geometri", ultima quindi del corso quadriennale vigente all'estero
per gli istituti medi superiori che in Italia sono quinquennali (già
ho menzionato questa riduzione nel precedente articolo "La mia
Eritrea") ed il programma di storia riguardava l'età contemporanea,
tale definizione comprendendo i fatti e le idee dall'inizio dell'Ottocento
in poi. Trattando del nostro Risorgimento, o delle analoghe lotte per
l'indipendenza di altri popoli, nel generale risveglio del sentimento
nazionale, fino alle cronache recenti in via di farsi storia, di nuove
oppressioni e nuove lotte, gli occhi di quei rispettosissimi alunni
si facevano intenti.
Ma quello che loro mi dicevano con gli occhi, ebbi pur occasione di
udirlo dalla bocca di un altro studente, sempre dell'Istituto ma non
di quella classe e non in quell'anno; uno studente intelligente e sensibile,
che aveva familiarità con alcuni professori della sua scuola,
insieme ai quali quella volta mi trovavo: "E come voi con gli Austriaci!
". E bisognava sentire come scaricava nell'ultimo termine, per
farsi capire, la sua passione di eritreo. Ma non era solo degli eritrei,
come avevo pur avvertito in quella mia classe del 1969/70 dal modo dell'ascolto,
la partecipazione alla causa dell'indipendenza: era anche, al "Bottego",
dei loro compagni italiani, specialmente di quelli, com'è naturale,
di madre eritrea.
E la partecipazione, tra gli studenti dell'Istituto Tecnico "Bottego",
non era solo affettiva, come dimostrò, pistola in pugno, quell'ufficiale
etiopico che il professore incaricato in quegli anni della presidenza,
già mio collega al " Martini ", dovette accompagnare
ai piedi dello scalone per il quale scendevano, alla fine delle lezioni
di un giorno del gennaio 1975, gli studenti, e quindi assistere all'arresto
di uno di essi, condotto via tra i soldati venuti con l'ufficiale (le
scuole all'estero non godono della extra-territorialità).
Di quello studente, del cui triste caso fu lo stesso preside ad informarmi,
non seppi altro: alla fine di quel mese ci furono in Asmara i fatti
a cui gli italiani residenti diedero il nome di "guerra";
i quali comportarono la chiusura anticipata dell'anno scolastico, quanto
alle lezioni; perché poi gli esami di maturità al liceo
e all'Istituto Tecnico, come quelli di licenza alla Scuola Media, si
tennero, come al solito, in giugno. E fu durante lo svolgimento di tali
esami in quell'Istituto che io ebbi un'ulteriore dimostrazione della
partecipazione non solo affettiva degli studenti di tale scuola alla
lotta per la liberazione dell'Eritrea. Non tragica come la precedente
(in quanto tutto era da temere per gli arrestati), essendoci di mezzo
non un'arma ma solo l'allusione a un'arma.
Avendo ricevuto anch'io, per quell'anno scolastico, ultimo del mio settennio,
l'incarico della presidenza del Liceo, me ne derivò infatti la
nomina a presidente della commissione al "Bottego" (l'unico
presidente venuto dall'Italia quell'anno fu quello per la Commissione
del Liceo: gli anni precedenti, i presidenti erano sempre stati nominati
anche per l'Istituto Tecnico, insieme ad alcuni commissari che variavano
di numero, concorrendo a formare le commissioni i docenti classi da
esaminare; ma quell'anno di commissari non ne venne nessuno; per il
Liceo mancavano anche, per la sostituzione, tutti i miei colleghi, non
più tornati da Addis Abeba dove il Consolato italiano nei giorni
del pericolo ci aveva trasferito, sicché operarono, con quell'unico
presidente mandato dall'Italia, laureati della Comunità italiana
asmarina, per esaminare quella parte di candidati presenti: gli altri,
riparati anch'essi ad Addis Abeba, sostennero l'esame colà, davanti
ad un'altra commissione; ma per Asmara il motivo delle rinunce alla
nomina in commissione fu una prudenza ritenuta molto salutare, per le
notizie dei fatti intercorsi, nella città e nel territorio) -
presiedendo dunque quella commissione, venne il giorno in cui, tra i
candidati da esaminare, c'era anche Mussiè; non avendo risposta
quando lo chiamai, chiesi: "Dov'è Mussiè?".
Rispondendo allora per lui un'altro candidato, da una sedia della prima
fila (eravamo nell'aula magna al pian terreno, in comune con la B.I.A.,
la Biblioteca Italiana di Asmara, la quale utilizzava l'ampio salone
per manifestazioni culturali), c'erano infatti non solo i candidati
in attesa del loro turno, ma tutti, o quasi tutti, gli alunni di quella
classe d'esame: fece il gesto di una raffica, con l'avambraccio sinistro
- ricordo - e la mano chiusa come se impugnasse la mitraglietta; non
senza qualche mia apprensione (ma evidentemente quel giovane non temeva
spie tra i suoi compagni), Mussiè come Ghebrai, come tanti altri
giovani, studenti e non studenti, era a combattere per l'indipendenza
dell'Eritrea.
Questa lotta doveva durare a lungo.
*
Quando io
arrivavo ad Asmara per cominciare il mio settennio di servizio all'estero
con l'anno scolastico 1968/69, erano sei anni che era cominciata, progredendo
via via, dopo il primo inizio di cinque o sei uomini armati di vecchi
fucili, come in quegli anni venni ad apprendere. Immediata anche se
germinale risposta, quindi, nel '62, all'atto di forza compiuto dall'imperatore
d'Etiopia in quell'anno.
Dopo la partenza degli inglesi, sotto la cui amministrazione era stata
l'Eritrea dal 1942 al 1952, consecutivamente alla loro vittoria nel
corso del secondo conflitto mondiale, e il successivo decennio (erroneamente,
nel far cenno a queste vicende all'inizio dell'articolo di questa serie
già pubblicato, risulta scritto "dall'anno precedente")
di federazione con l'Etiopia, si sarebbe dovuto svolgere, secondo il
programma approvato dalle Nazioni Unite che ne impegnavano il Negus,
il referendum tra gli eritrei per decidere se continuare nella federazione
o costituirsi in piena indipendenza. Hailè Sellassiè (per
la storia d'Africa, incoronato Negus d'Etiopia, succedette - 2 agosto
1930 - alla zia, l'imperatrice Zauditù, prendendo nome di imperatore
Hailé Selassié I), invece, facendo intervenire l'esercito,
pose fine al Parlamento e Governo eritrei e, a legittimazione del fatto
compiuto, gli eritrei furono chiamati a pronunciarsi sull'unione con
l'Etiopia.
Se il risultato gli fu favorevole, con una maggioranza per l'unione,
rispetto alla proposta indipendentistica, e all'altra, pur presente,
pro-Italia, esso non va tuttavia attribuito per intero alla rassegnazione,
stante la preponderanza etiopica: la comunanza di origine, secoli prima
di Cristo, per la fusione tra genti africane ed altre sopraggiunte di
tipo europeo, quella della cultura, connessa alla precedente, specialmente
per le migrazioni dalla parte meridionale della penisola arabica, infine
quella della religione, il cristianesimo copto, giocavano a favore dell'appello
all'unità. Ma quei richiami inaridirono alla dimostrazione, subito
offerta, di un potere oppressivo e, sull'economia, depressivo, in una
regione che in quasi settant'anni di presenza italiana, periodo coloniale
e post-coloniale, aveva ricevuto, nonostante aspetti negativi nel primo,
un rilevante contributo al suo sviluppo per le doti, oltre che di umanità,
di laboriosità anche là agli italiani riconosciute (con
sentimenti anche - ne fui testimone nel bidello anziano del nostro Liceo
- di nostalgia); sviluppo che la poneva ad un livello ben superiore
a quello dell'Etiopia, tanto da dar credito alla voce, che sentivo,
essere intenzione del Negus di abbassare l'Eritrea, la nuova provincia
del suo impero, al livello delle altre (dove pure il quinquennio italiano
- 1936-1941- aveva avuto uno straordinario effetto, ma, si capisce,
in proporzione a quel brevissimo tempo concesso dagli avvenimenti).
Ora, invece, gli effetti della cattiva amministrazione, sommandosi a
quelli delle calamità naturali, tra cui la progrediente siccità,
che nel '70 fece pensare all'evacuazione di Asmara, correvano al disastro,
aumentato sempre più, come si comprende, dalle devastazioni di
una guerra lunga e sempre più feroce, nell'impossibilità
per gli etiopi di soffocare quella ribellione, robustissimo sviluppo,
nelle condizioni descritte, di quel primo germe del '62, per il colpo
di mano negussita, contro il programma degli eritrei, approvato dall'ONU,
ma non senza appoggi internazionali, perdurando la tensione tra i blocchi,
alla quale si connettevano, in quel momento, i timori di uno "sconfinamento"
di un nuovo Stato dell'Eritrea, essendo allora l'Etiopia del Negus amica
dell'Occidente.
Il passaggio dal secolare Stato feudale del Negus (un italiano di Asmara
mi raccontava, per esserne stato testimone oculare, del volto attonito
di un etiope in una regione dell'impero effimeramente conquistato, guardandosi
nelle mani il denaro ricevuto per l'opera prestata, come non gli era
mai capitato) a quello inaugurato dal Derg, con la rivoluzione nel '74
dei militari intenzionati ad un radicale comunismo, non smobilitò
la ribellione eritrea: nonostante il ritrovarsi ora, per quella rivoluzione,
le due parti in conflitto nella stessa area ideologica; e invano radio
e giornali ripetevano gli appelli della nuova dirigenza, sul motivo
conduttore: "Contro il regime feudale naturalmente sì, ma
ora quel regime è caduto, non c'è più motivo".
Le trattative furono senza esito.
Si arrivò così al gennaio del 1975, con il primo tentativo,
da parte del Fronte di liberazione (composto dal F.L.E. - Fronte di
liberazione Eritreo, e del F.L.E.-F.P. - Fronte di Liberazione Eritreo
Forze Popolari), già padrone delle campagne, di impadronirsi
di Asmara.
Il 20 di quel mese annotavo (lo stampatello è di allora): "Scontro
previsto per FINE GENNAIO (ora un comitato è ancora in trattative).
I patrioti vogliono l'indipendenza, il governo centrale al massimo concede
la federazione".
"Per fine gennaio ": e così fu! Il tentativo (iniziato
la sera del 31) fallì, ma le conseguenze furono grandi e gravi,
anche per la comunità italiana, che già avevamo notato,
noi delle scuole giunti nel '68, come fosse diminuita, rispetto a quando,
al nostro arrivo, la vedevamo popolare numerosa le strade di Asmara;
nel '75 ci fu un esodo in massa, come già detto nella prima puntata;
con una notevole ripercussione, naturalmente, sul nostro complesso scolastico,
il più importante, fino a quei giorni, tra gli altri nostri all'estero.
(Continua)
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