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Le mani nel cassetto del Chichingiolo
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BAAL CAROSSA
di Elvira Romano Fenili e Vincenzo Acquaviva

I calessinai. Chi non se li ricorda e come non ricordarli?
Stavano in fila, pazientemente in attesa dei clienti, negli angoli più strategici di Asmara. Alla fantasia di ogni proprietario ed alle possibilità finanziarie era affidata la decorazione del calesse il cui colore di base era un bel giallo carico, poi c'era chi attaccava dei sonagli intorno al collare, chi decorava con semplici disegni le stanghe, chi foderava con del cuoio il sedile dove si accomodava il cliente. I cavalli poi variavano: alcuni, veramente in minoranza, erano vigorosi e giovani col pelo lucido e in salute, mentre la maggior parte erano ronzini , così magri e stremati che facevano veramente pena soprattutto quando dovevano portare carichi pesanti nelle salite e venivano frustati senza remissione. Naturalmente chi saliva sulla carrozza doveva essere preparato a tutto anche al fatto che, essendo il cavallo un animale, non aveva certo la cognizione di quando e dove soddisfare i suoi bisogni corporali. Il passeggero doveva solo augurarsi che ciò non accadesse durante il percorso e, nella malaugurata eventualità che ciò accadesse, che almeno il vento soffiasse nella direzione opposta.
Anche i calessinai erano diversi: c'erano quelli ciarlieri e allegri, che discorrevano del più e del meno; c'erano quelli più riservati che preferivano coprire il tragitto immersi nei loro pensieri; c'erano quelli che rispettavano il cavallo e usavano la frusta raramente e soltanto per sottolineare un comando, mentre altri, per fortuna più rari, non lesinavano le frustate.
I calessinai avevano vita intensa anche di notte, soprattutto grazie al supporto ed al contributo dei soldati americani, che in libera uscita, sciamavano dalla base e invadevano i bar dei dintorni. Poi, a notte fonda, ebbri si buttavano sui calessini che dovevano portarli a destinazione che il più delle volte non era la base, bensì la casa di qualche cameriera compiacente che, per arrotondare il magro stipendio, estendeva la sua "ospitalità" ben oltre quella strettamente professionale.
Qualche volta i militari, inebriati dai fumi dell'alcol, strappavano le redini al calessinaio e si mettevano alla guida del trabiccolo catapultandolo in corse pazze, tra schiamazzi, grida e schioccar di frusta degni del miglior rodeo americano.
Ma gli americani, come vedremo più avanti, non erano gli unici a combinarne di cotte e di crude. Quello che segue è, infatti, il ricordo esilarante di un asmarino purosange, Vincenzo Acquaviva, ideatore ed autore della marachella descritta e che io riporto testualmente così come mi è stata raccontata al telefono dall'autore, che mi ha autorizzato a fare diventare il suo racconto parte integrante del mio.
"Una sera, diciottenne insieme a tre amici, Gnudi, Guerra e Geraci, all'uscita dal cinema e dopo la sosta quasi rituale in pizzeria, reputando la notte ancora giovane e volendo diversificare la solita, noiosa routine, decidemmo di fare uno scherzo ai calessinai.
Questi si mettevano in fila, davanti ai bar dove più numerosi si assiepavano i militari americani e, rassegnati a fare le ore piccole in attesa della chiusura e con la speranza di guadagnare qualche soldo in più, stavano seduti sul loro calesse, sonnecchiando, avvolti nelle coperte ruvide e pesanti, colore verde-militare, ma sempre con le orecchie tese a captare eventuali voci o schiamazzi che li avrebbero chiamati all'azione.
Ebbene, dopo aver nascosto la macchina in una via traversa, al buio, io, delegato dagli altri come quello dei quattro che aveva, oltre che una buona conoscenza della lingua tigrina, anche la migliore pronuncia, lanciai a gola spiegata un: "BAAL CARROSSA, ATTA', BAAL CARROSSA". Galvanizzati dal mio richiamo, come un sol uomo, i 7 o 8 calessinai, svegliatisi di soprassalto dal torpore e buttate le coperte, partirono di corsa, come furie, redini alla mano, verso la voce che presumevano venisse dal bar più vicino, sollecitando a suon di frustate i poveri ronzini che nella confusione generale rischiavano di scontrarsi gli uni con gli altri per arrivare primi al traguardo, traguardo che in quell'occasione si rivelò essere un nulla di fatto. Ma i calessinai, gente tosta, non avevano certo l'intenzione di arrendersi facilmente, per cui supponendo al momento di non aver inteso bene da che parte venisse il richiamo, iniziarono a gridare: "AVEI, AVEI? (dove, dove?)", e io di rimando "AVZI, AVZI! (da questa parte, da questa parte), cosa che fece ripartire i poveracci, a tutta birra, nella direzione della mia voce per fare ancora una volta cilecca perché nel frattempo noi ci eravamo dileguati con la macchina. Ricordo che, dopo aver lasciato trascorrere una buona mezzora circa, il tempo necessario ai calessinai di riposizionarsi nel consueto dormi-veglia, tornammo alla carica, questa volta lanciando il richiamo da una locazione diametralmente opposta alla prima e facendoli così cadere in un nuovo stato di totale agitazione e confusione.
Ridendo a crepapelle, al riparo del buio, ci dileguammo definitivamente, lasciando i calessinai imbestialiti, intenti a gesticolare vagamente nella nostra direzione e a lanciare i loro anatemi e ingurie: "Wodi... (figlio di.....)", "Ker yeka ie!!! (ti farò vedere io!)", "Sappiamo chi sei..." che facevano eco alle nostre pazze risate.

... E, dopo tanti anni, rido ancora quando rivivo la scena di quelle coperte che saltavano in aria come elettrizzate, tutte allo stesso momento, e poi il parapiglia di calessini, cavalli e fruste che partivano alla carica come un sol uomo, per non parlare della nostra velocissima ritirata: quattro ombre piegate in due dal troppo ridere".

Elvira Romano - Vincenzo Acquaviva

14 Febbraio 2004

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