Difficilmente
l'individuo si sofferma a considerare i motivi che hanno spinto gli
abitanti di un luogo a realizzate, sia pur in una forma primitiva,
le case in un determinato modo. Soprattutto quando l'aspetto esteriore
di queste rudimentali abitazioni non possiede alcuna attrattiva. Si
tratta di case primitive che mostrano solo l'essenziale: una porta,
una o più finestre, un tetto. La loro forma è rotonda
o rettangolare, o, addirittura, incassata contro i pendii delle colline.
Si guarda e si considera l'assieme. Ecco, ad esempio, in Etiopia,
fuori dai grandi centri, i villaggi possiedono caratteristiche pressoché
uguali. Si vedono sulle piatte cime delle ambe, o nascoste fra oasi
di verde, o ancora appollaiati sui declivi delle montagne. Difficilmente
i villaggi sono incassati nelle valli, o se ci sono, le case sono
sempre costruite nei punti dove le piene non possono arrivare. Sembrano,
guardandoli da lontano, panorami privi di interesse, e difficilmente
tra un tipo di casa e l'altro si rivelano sostanziali differenze.
Viceversa queste differenze ci sono ed è appunto per la superficialità
con cui si giudicano che sfuggono alla considerazione di chi le guarda.
Per lo più sono case primitive ma che denotano una loro precisa
funzione e corrispondono a ben determinati scopi. E' indubbio che
per i tempi, come già si registra nei grossi centri, la casa
tipica dei villaggi dei bassopiani come degli altopiani d'Etiopia
è destinata a mutare, come sta mutando la stessa società
umana, vuoi per il costante aumento delle scuole, vuoi per l'estensione
della rete stradale, vuoi per la creazione di facilitazioni nei collegamenti,
negli spostamenti di masse, in conseguenza di iniziative economiche,
e vuoi, infine, per i nuovi concetti di vita. In altri termini la
casa, che è sempre il principale obiettivo dell'individuo,
è destinata, come in tutti i paesi del mondo, ad esprimere
un miglioramento dello standard di vita. E' vero che le trasformazioni,
almeno nelle zone rurali, avvengono sempre più lentamente che
non nelle città. Ma è fuori discussione che anche nelle
campagne si verificano, sia pur manifestandosi nell'uso di fornelli,
o di tegami, o di tazzine. Da un punto di vista etnografico e sociale
anche l'acquisizione di forme differenti di vita, come abiti, sedie,
letti, illuminazione, ecc. formano le premesse di una trasformazione
sociale. Si tratta, in ogni caso, di abbandonare millenarie stoviglie,
realizzate con legni o con terrecotte, per quelle più moderne,
costruite in alluminio, in vetro, o in ferro smaltato.
Un processo di modificazione sociale viene rilevato proprio dalla
casa e, per adesso, è estremamente difficile dire quando i
villaggi tipici rurali, che costituiscono il paesaggio dell'Etiopia,
muteranno la loro caratteristica. Il processo è tuttavia in
corso: alla paglia dei tetti si sostituiscono le lamiere; alle pareti
in "cicca" si preferisce costruire muri con pietre, mattoni
o blocchetti.
E' un mondo, insomma, che lentamente sta cambiando. Il villaggio tenderà
a divenire paese e, se le risorse economiche e umane lo consentiranno,
a trasformarsi in città. Quando e come non è facile
pronosticarlo. Ma l'elevazione dello standard sociale e la diffusione
dell'istruzione porteranno all'immancabile risultato di vedere sparire
i tucul, gli hedmò, e altri tipi di case permanenti
dell'alto e medio piano, e quelle provvisorie, o semi provvisorie,
dei raggruppamenti nomadi, dei bassopiani.
Non è certamente mia intenzione difendere la casa tradizionale,
e rilevare nella sua condanna la perdita di un patrimonio che dovrebbe
essere preservato come appunto avviene per le opere d'arte, per le
collezioni di strumenti, ecc. I programmi urbanistici hanno posto
sul tappeto, senza mezzi termini, la necessità di realizzare
dei centri civici organici, con case economiche, ma realizzate secondo
criteri di igiene, di convenienza, di uso dei servizi pubblici, come
le strade, l'energia elettrica, l'acqua potabile. Tutto ciò,
infatti, non potrebbe avvenire se non si abbandonassero le primitive
soluzioni della casa per una casa più moderna.
La mia, ad ogni buon conto, non è un'indagine sulle trasformazioni
che si stanno registrando nei centri urbani e nei villaggi, ma si
limita a rilevare come la popolazione vive, cosa usa, come si comporta
il nucleo familiare all'interno delle case tradizionali.
Lo spunto mi è stato fornito proprio dalla realizzazione, in
un settore della zona fieristica di Asmara, di case tipiche delle
divisioni amministrative in cui si divide l'Eritrea: da una parte
sono stati costruiti i padiglioni delle divisioni dell'altopiano,
le cui popolazioni hanno similitudini marcate di vita; dall'altra
sono state riunite le abitazioni tipiche dei bassopiani. E qui, ad
esempio, sono più marcate le differenze, soprattutto fra il
bassopiano occidentale e quello orientale. Ogni abitazione costituisce
per lo studioso un centro caratteristico dove tutto corrisponde a
ben definite funzioni. Non si può certamente parlare di eleganza
ma di funzioni. L'eleganza, la magnificenza, la raffinatezza, l'arte
si notano non nelle case popolari ma negli edifici più complessi,
di grandi capi, o nelle chiese. La casa risponde alle funzioni essenziali
a cui è destinata: ricovero dalle intemperie, luogo di ristoro
e di riposo, deposito di viveri e di bevande, ripostiglio per gli
attrezzi da lavoro, vestibolo, deposito di armi, stalla per il bestiame.
Le
caratteristiche delle case dello Hamasien, dell'Acchele Guzai e del
Seraè sono, in un certo qual senso, comuni, non tanto nell'esteriorità
quanto nelle attrezzature interne, nell'uso degli strumenti per la
lavorazione dei campi e la conservazione delle granaglie e dei cereali,
nella preparazione dei cibi.
Nell'Hamasien, nell' Acchele Guzai, come nel Seraè prevalgono
sui tucul gli hedmò. I muri perimetrali dello
hedmò sono costruiti a secco con pietrame e fango. Adoperando
dei pali di legno biforcuti, oppure colonne di granito squadrate,
molti hedmò vengono arricchiti, nella parte frontale,
di una pensilina, più o meno profonda, dove si soffermano in
discussioni gli uomini o dove le donne accudiscono al lavoro di preparazione
della farina o degli ingredienti che si mettono nei piccanti intingoli
della cucina etiopica.
Realizzati i muri perimetrali, con porta frontale, con finestre frontali
e laterali, e con le finestre posteriori e altre porte, l'hedmò
viene completato da sostegni interni in legno duro, normalmente dei
tronchi d'albero di circonferenza non eccessiva, che hanno la funzione
di sostenere la pesante copertura. Il tetto viene prima coperto da
travi, sulle quali si pongono i ramoscelli e gli arbusti, onde formare
un cuscino alla terra che, in abbondanza, e dallo spessore medio di
una ventina di centimetri, viene riposta sul tetto stesso. Lo strato
di terra pressata assicura una assoluta impermeabilità, per
quanto permanga all'interno specialmente nel periodo delle grandi
piogge, un certo grado di umidità. L'hedmò, che
ha forma rettangolare, è suddiviso di norma in tre locali:
nella prima parte ci sono i giacigli, costruiti col fango, e che possono
essere a due, a tre, a quattro posti, e gli attrezzi per i lavori
agricoli. Non tutta la famiglia, però, dorme qui. Alcuni qui,
altri nella parte centrale e più ampia della casa. Il padrone,
il capo famiglia, può dormire sopra al piano sopraelevato,
nel ualdebit come viene chiamato.
Ecco ben sistemati gli attrezzi per lavorare i campi: il neuit
(bure), il dugri (alette in legno del vomere), l'erfi
(stegola), il cherfes (cinghie), l'aruùt (giogo),
il silàa (verga per stimolare i buoi al lavoro).
Fra la prima e la seconda stanza, ma è più appropriato
affermare fra il primo e il secondo settore, sono posti dei grandi
recipienti, chiamati colò. I colò hanno
la forma di grandi anfore, sono costruiti con argilla impastata con
paglia, e asciugati al sole. Dentro si mettono cereali e granaglie.
Nel secondo settore, che poi è la parte centrale dell'hedmò,
si preparano i pasti e vi si trovano gli oggetti per la cottura e
gli attrezzi per la lavorazione dei cibi: l'etòn, che
è un forno in argilla, il metahàn una pietra
levigata per macinare i cereali, un mogogò per preparare
l'enghera, dei medeb (sono rialzi di terra per sedersi),
un ghebberà nel quale si impasta la farina, un moclò,
e cioè una piatta lamiera in ferro che serve per preparare
e cuocere il chiccià (una focaccia non lievitata). Lo
scaffale, che serve per riporre le varie stoviglie, è pure
costruito in terra e si chiama chebhi. Dimenticavo di dire
che il giaciglio, o letto in terra, ha nome needi. Sempre nell'ambiente
della cucina troviamo gli oggetti necessari per la cottura: lo zahlì,
un tegame in terracotta per preparare lo zighinì (che
è il piatto nazionale etiopico ed è molto apprezzato
anche dai visitatori stranieri), il curà, pure in terracotta,
e riservato a far bollire il latte, uno o più hilab
che sono recipienti concavi in legno destinati a differenti usi. Per
la custodia degli alimenti e degli ingredienti sono adoperati oggetti
diversi e dai nomi differenti: cihelò, nizbà,
mentebìt, zahlìberchi, mechersemito,
ecc. Nella fabbricazione di queste stoviglie prevale la terracotta
o il legno. Tegami, pentole in rame, alluminio, ferro hanno cominciato
ad entrare nell'uso negli ultimi cento anni. Per quanto, per la preparazione
di determinate pietanze, gli etiopici optino ancora per recipienti
speciali, come ad esempio, lo zahlì che dà allo
zighinì un sapore del tutto particolare e che non si
potrebbe ottenere se cotto in altri. Con tutto ciò non è
escluso che lo zighinì non si possa preparare anche
in tegami di alluminio, soprattutto se lo si vuole poco piccante.
Ritorniamo
ora all'interno dello hedmò e portiamoci nel terzo settore
che costituisce in un certo qual senso la cantina della casa. Dato
l'uso, non certo limitato di spezie aromatiche e piccanti, nella cucina
etiopica, è ovvio che si siano ricercate anche le bevande adatte,
ottenute dalla lavorazione del miele e dai diversi modi di fermentazione.
Il miele è la materia prima essenziale per la preparazione
del mies, mentre il sua viene preparato con la fermentazione
di cereali come il dagussa o l'orzo. Queste bevande vengono conservate
in recipienti chiamati etrò. La terza parte dell'hedmò,
oltre che cantina, è anche dispensa dei viveri: nel goibi
si conserva il miele, con il mocbatì si filtra il sua,
ecc. Per la preparazione del sua e del mies le materie
prime, oltre ad alcuni cereali ed al mear (miele), sono il
tzoddo (scorza per fermentare il mies), il bucli
(orzo o grano), il ghieso (foglia per fermentare il sua).
Per quanto riguarda i piatti da porre i cibi, guantiere per servirli,
oggetti per contenerli, le donne etiopiche confezionano eleganti cestini,
piatti, ecc. adoperando una paglia molto resistente che viene colorata
per formare, nell'intreccio, motivi ornamentali. Normalmente questi
oggetti si trovano sopra i colò e hanno differenti nomi,
a secondo dell'uso a cui sono destinati: sefì (grande
piatto) mehè (cestino per pulire il grano), chiriciat
(tavolo rotondo), hilhilò, (borsa di cuoio delle spese),
segorfò (contenitore di cereali), setetà
(piatto per l'enghera), meblii cursi (piatto
per la colazione), menfit (setaccio da farina), mocombia
(coperchio del zahli), tifhi (portagioie femminile).
Nel punto centrale dell'hedmò la famiglia si riunisce
per consumare i pasti, ma proprio sotto ai colò vi è
un punto chiamato usciatè dove, di norma, dormono le
donne e i bambini. Bisogna considerare sempre che l'hedmò
è di proporzioni piuttosto vaste, e la vastità è
data dalla condizione della famiglia: se la famiglia è quella
di un capo è naturale che l'adderasc, cioè il
settore centrale, sarà di maggiore vastità; e così
dicasi se la famiglia è benestante.
Mi sembra interessante rilevare che l'hedmò, come casa,
ha fatto la sua apparizione in Etiopia nel periodo pre-cristiano,
ma era una casa generalmente riservata ai grandi capi. Prova ne siano
le rovine del periodo axumita, ad esempio, della città di Meterà,
nei pressi di Senafè. Esso però è diventato popolare
soltanto negli ultimi duecento anni. Funzione fondamentale in ciò
ha avuto la Chiesa. Il tucul, ad esempio, precede l'apparizione
dell'hedmò. Tuttavia è quanto mai difficile stabilire
date e confermare le origini di queste abitazioni rurali, destinate,
come ho più sopra fatto cenno, a scomparire a mano a mano che
le popolazioni aumenteranno il loro tenore di vita, e quindi potranno
acquistare i materiali per casette economiche più vicine ai
nostri tempi. A tal riguardo credo sia opportuno sottolineare la politica
svolta dal Governo etiopico nell'intento di propagandare l'adozione
di casette popolari. Fra l'altro sono stati banditi concorsi negli
istituti tecnici e molte sono state le soluzioni studiate.
I lavori in paglia delle donne e che sopra ho ricordato con i diversi
nomi e i diversi usi sono molto ricercati dai turisti: alcuni sono
eseguiti in maniera comune, ma altri hanno dei pregi artistici. Oltre
alla paglia si usa anche il filo di cotone, nelle diverse gradazioni
di colori. La realizzazione è fatta a mano e richiede una particolare
pazienza, oltre ad un certo estro. Si tratta di articoli che si inseriscono
molto bene nella produzione artigiana e che potrebbero trovare anche
fonti di assorbimento all'estero.
Un altro locale, che però non tutti gli hedmò
posseggono è il ualdebit, che si trova sopra il tetto,
come fosse un'elevazione di un piano. Questo piano non ricopre tutto
il tetto, ma una parte minima, ed è normalmente riservato al
padrone di casa. Al ualdebit vi si accede da una porticina
chiamata ahlifinni.
Il
ualdebit è una specie di soggiorno, ma anche guardaroba,
e realizzato, almeno all'interno, con una certa preziosità.
Intanto il soffitto appare coperto di legno lavorato, posto a spina
di pesce. Nel ualdebit si trova un aràt, cioè
un letto non costruito con fango, ma con l'intelaiatura di legno e
con una rete ricavata dall'intreccio di strisce di pelli conciate.
Sempre nel ualdebit il padrone di casa ripone la scimitarra,
la cappa (differente a secondo del titolo di cui si fregia il padrone
di casa), sedie, scudi, spade, lance, scacciamosche confezionati con
crine, libri sacri, e gli abiti, sia dell'uomo che della donna. Il
ualdebit ha diverse funzioni: è un po' un eremo, un
posto di riposo e di meditazione.
Attigua all'hedmò vi è un'altra costruzione chiamata
heguà. Essa è destinata a molti usi: luogo di
ricreazione e deposito. Più lontano viene costruito il gabinetto.
Il bestiame viene posto nel dembè, cioè il recinto
della casa, e quasi sempre di fronte in modo che possa essere controllato
dall'interno dell'hedmò. Dietro si usa invece mettere
capre e pecore. I capi non sono legati a mangiatoie ma lasciati liberi.
Nella stagione piovosa si riparano sotto delle tettoie, e si coricano
sulla nuda terra. Lo sterco, fatto essiccare, viene adoperato per
far fuoco ma anche, particolarmente nelle aree dove è reperibile
legna da ardere, come concime. E ciò grazie alla propaganda
che viene svolta nelle campagne per migliorare e aumentare la produzione.
Ho già affermato che sia i tucul che gli hedmò
non sono diversi nello altopiano. Gli abitanti dei villaggi praticamente
coltivano la terra con gli stessi strumenti, e non sussistono grandi
differenze nella stessa vita di comunità e familiare. Molti
hedmò dell'Acchele Guzai vengono completati con l'elevazione
di una stanza sopra il tetto, alla quale si accede attraverso una
scaletta interna. Molto usato, nell'Acchele Guzai, è il granito.
Nel Seraè, invece, è più facile ritrovare costruzioni
a più piani, con ballatoi, a pianta rotonda, e ricopertura
conica in paglia. In ciò vi è una imitazione di quanto
si può rilevare nel vicino Tigrai, e particolarmente nei centri
di Adua e Axum.
Non è mia intenzione considerare le diversità, invece,
fra regione e regione, che si possono riscontrare nello studio del
diritto consuetudinario. Queste differenze, però, non comportano
disuguaglianze nell'ambiente della famiglia e nel sistema di vita.
La differenza è più marcata quando si passa dall'altopiano
eritreo alle regioni del mediopiano e del bassopiano. Le stesse differenze
climatiche hanno portato gli abitanti ad escogitare soluzioni diverse,
soprattutto per avere all'interno dell'abitazione una ventilazione
maggiore ed avere, quindi, possibilità di vita nel torrido
periodo estivo.
L'hedmò, dunque, costituisce la casa tipica dell'altopiano,
mentre il tucul è più usato nelle regioni del
mediopiano. Tuttavia il primo esprime, in un certo qual senso, un
maggior benessere o il possesso di capi di bestiame, mentre il secondo,
date anche le minori proporzioni, è una abitazione più
economica, per quanto resti la casa classica di ogni pubblicazione
e di ogni pubblicità intesa a richiamare l'attenzione del visitatore
sull'Etiopia.
Per
vedere un tipo differente di casa (e il significato di casa, in questo
senso, va preso come ricovero) occorre scendere nei bassopiani. Il
nucleo sociale ha differenti aspetti di unità, il caldo estivo
e il freddo invernale hanno portato gli abitanti a studiare soluzioni
e l'uso di diversi strumenti. La natura, anche in questo caso, ha
provveduto a fornire all'uomo gli elementi essenziali per realizzare
la sua casa o capanna.
Ed eccoci nella zona di Massaua, ma fuori, è ovvio, dal suo
perimetro urbano. La capanna che caratterizza tutti i villaggi si
chiama "madenì" ed è tratta da un tipico
arbusto che cresce spontaneo nel bassopiano. Il madenì
non è che la conseguenza della origine nomade della popolazione,
quando a secondo delle stagioni, spostandosi da un punto all'altro,
alla ricerca dei pascoli per il bestiame e di condizioni di vita possibili,
gli abitanti erano costretti a mutar spesso zona. Sicché si
prospettava la necessità di disporre di capanne facilmente
smontabili, di poco peso, e strumenti facili ad essere trasportati
a dorso di cammello. Con il cessare, a mano a mano, del fenomeno del
nomadismo anche il madenì ha subito trasformazioni:
si è ampliato, ha aggiunto sezioni nuove per meglio soddisfare
le necessità di un gruppo familiare stabile.
La sua origine, mi dicono, risale a settecento anni orsono, tuttavia
non è precisato chi per primo abbia scoperto l'uso della paglia
omonima da essiccare e, successivamente, intrecciare. Ma credo che
questi particolari abbiano un'importanza relativa, tanto più
che non si tratta di stabilire le origini di una scuola o di un periodo
architettonico, ma semmai di rilevare un sistema, un modo di vita,
di impostazione molto semplice, dove i valori sono espressi nella
lotta che l'uomo ha dovuto condurre per la sua sopravvivenza.
Il madenì in particolare lo troviamo alla periferia
di Massaua, e nei centri vicini come Uachirò, Emberemì,
Archico, Zula, Ailet. Salvo le famiglie che possono disporre di somme
maggiori e, quindi, possono costruirsi case stabili, le popolazioni
preferiscono in senso assoluto questo tipo di capanna. D'inverno il
madenì mantiene all'interno una temperatura moderata,
d'estate, particolarmente nel periodo più torrido, vi è
una costante ventilazione. Un madenì può durare
da 15 a 20 anni e il suo costo può variare da 700 a 750 dollari
etiopici. Ogni madenì poi ha la sua zeriba, cioè
il recinto esterno, dove si svolge la vita familiare, dove si riuniscono
gli uomini e si tiene il bestiame.
Nel bassopiano occidentale, la capanna dei beni-amer viene invece
confezionata con stuoie, e si chiama bet himmaret tecaib. Per
la realizzazione di queste dimore pastorali, che richiedono poco tempo
per essere smontate e trasportate, a secondo della stagione, nelle
zone di pascolo del bestiame, gli abitanti del bassopiano occidentale
adoperano una fibra detta caale, che è una palma differente
dalla palma dum, di cui è molto ricco il bassopiano, e più
particolarmente lungo le rive dei fiumi Barca e Gasc. E la vita dei
beni-amer si svolge proprio fra questi due fiumi. La casa del beni-amer,
secondo delle tradizioni orali, avrebbe l'attuale forma da almeno
quindici secoli. Essa è suddivisa, se mi è consentito
di adoperare termini che meglio indichino le funzioni dei vari scompartimenti,
da un soggiorno chiamato ket-bet; dove invece è posto
il talamo degli sposi, è definito arkei. Nei pressi
immediati del talamo, proprio fuori della tenda che nasconde il letto,
il luogo è chiamato got. Il ripostiglio si chiama gron.
Davanti all'ingresso della capanna si realizza una specie di pensilina,
che è chiamata afet.
Molto ingegnosi, i beni-amer ottengono dal legno e dalla paglia, oltre
che dalla terracotta, gli attrezzi e gli utensili, sia per la conservazione
dell'acqua (molto importante in zone dove le precipitazioni sono molto
scarse) che dei cibi. Non mancano armi da taglio, sia per la difesa
che per la caccia. La regione, per quanto riguarda la fauna tropicale,
è una delle più interessanti del Paese e può
essere considerata il paradiso dei cacciatori. Non è difficile,
infatti, trovare elefanti (attualmente ne esistono due branchi per
oltre cento capi), facoceri, ghepardi e leopardi, gazzelle, serpenti.
Da molti anni non si vede nella zona la giraffa.
La capanna dei beni-amer è molto ventilata. Sicché nella
stagione calda i suoi occupanti godono di una certa frescura. L'otre
per l'acqua viene depositato nel ket-bet e si chiama harib.
Il letto dove dormono i coniugi è ricavato da un intreccio
di legni, sul quale viene steso un danca, cioè un ripiano
fatto di stecche. Sopra questo, viene messo quasi fosse un tappeto,
un arkei. Sia il danca che l'arkei sono fatti
con foglie di palma dum. Le donne beni-amer sono espertissime nel
lavorare sia la paglia di caale che quella ricavata dal taglio
delle foglie della palma dum. Esse, oltre a renderle sottilissime,
sanno anche colorarle. Le ciotole in legno sono invece scavate in
pezzi di tronchi di obel, un albero d'alto fusto, simile al
salice e che si trova in abbondanza nella savana. Tipici i pettini,
pure in legno. Il guanciale dell'uomo è fatto con un pezzo
di legno a forma di mezzaluna e con un piedistallo, pure di legno.
Esso serve, anche nelle ore di riposo, a mantenere eretta la testa,
ed è dell'altezza della spalla. Non credo sia un esercizio
facile per chi è abituato a soffici cuscini.
Ogni capanna è poi riccamente addobbata di stuoie, di gingilli
e pendagli, ognuno con una funzione e che qui sarebbe pedante elencare.
Tuttavia, sia la confezione delle stuoie che delle corde, che hanno
differenti nomi a secondo del materiale usato, denotano un'industriosità
ammirevole. Molti oggetti trovano facile piazzamento fra i turisti,
sempre alla ricerca dell'esotico e di pezzi d'artigianato.
Nello sguardo dato ai differenti tipi di abitazioni delle regioni
dello altopiano e del bassopiano, si giunge alla conclusione come
le popolazioni della provincia settentrionale della Etiopia vivono
ancora essenzialmente di agricoltura e di pastorizia. Una funzione
preminente, però, nella trasformazione sociale è data
ora dalle scuole, dalle industrie, dalle aziende agricole con colture
intensive. Sicché la vita ancestrale, quieta dei villaggi è
destinata ad annullarsi. Ma se la casa cambia, se cambiano gli abiti,
ancora non muta il folclore. Anzi, di zona in zona, esso ha caratteristiche
particolari, soprattutto nella danza e nei canti.
Comune, ovunque, in Africa, è il tamburo. Il suo tam-tam risuona
nei villaggi dell'altopiano come del basso piano. Il ritmo è
differente, diverso è il modo di preparare i tamburi stessi.
Ma vi è sicura una origine comune. La casa, invece, deve rispondere
a esigenze differenti, soprattutto a condizioni climatiche diverse.
Essa deve proteggere l'uomo dal freddo e dal caldo. Ed è l'uomo
che ha trovato nella natura gli elementi adatti. E qui sta la concezione
diversa della casa. Non per nulla i più qualificati tecnici,
prima di progettare un edificio, cercano di ricavare dalle consuetudini
degli utili insegnamenti. Anche se poi, a volte, si assiste allo assurdo
di vedere, in zone dal caldo tropicale, costruzioni con vetrate immense,
come si usa nei paesi nordici, dove il sole giunge razionato. Le esigenze
sono opposte: nei paesi nordici si vuole accaparrare tutto il sole
che arriva; qui in Africa il sole non manca. Semmai bisogna proteggersi
dai suoi raggi, creando zone d'ombra e alimentando, attraverso accorgimenti
tecnici, le sottili correnti d'aria, onde ottenere frescura e ventilazione.
E' dalle capanne, fatte di stuoie e di paglia, che da secoli e secoli
vengono allestite con immutabili concetti e sistemi, che giunge la
soddisfazione della vita. Proprio nel suono di quei tamburi, dall'eco
di canti e di danze, sembra erompere un inno di ringraziamento per
il poco che la natura assicura. Un poco che basta, o è bastato,
senza contestazioni, come avvengono al giorno d'oggi nei paesi dove
il progresso ha dato anche il superfluo.
Enrico
Mania