  
                CHI 
                  SIAMO NOI? 
                  (LA MITOLOGIA) 
                LA 
                  PREMESSA 
                Dopo 
                  aver stabilito che siamo Zizifi ancorché ben lontani 
                  dall'essere Mauriziani d'ordine ma sempre ramnacei di carattere, 
                  ci è giunta questa mail: 
                 
                  Carissssimo, 
                     
                    Vuol dire che in momenti di particolare affettuosità 
                    invece di Kikki ti potremmo anche chiamare Zizì per 
                    Zizifo... 
                    Lancio un'idea: inventiamoci l'origine del Chichingiolo, cioè 
                    quando e come fu battezzato così. Ci sarà pur 
                    stata una prima volta, quando qualcuno ha deciso di chiamarlo 
                    Chichingiolo invece di lasciarlo Gavà/Gabà oppure 
                    di chiamarlo Jujuba, o no? Diamo libertà alla fantasia, 
                    condiamola di ironia, spruzziamola di originalità e 
                    vai!!!  
                    Ne uscisse qualcosa di simile al canto delle donne dell'altipiano, 
                    sarebbe fantastico. 
                    
e in palio? Potrebbero votare i lettori che premieranno 
                    la versione che preferiscono con il Chichingiolo AiM (Aureo-in-Maturità), 
                    con il Chichingiolo QP (Quasi Pronto) e con il Chichingiolo 
                    Adm (Addavvenì maturo). 
                    Che ne dici?  
                    A risentirci. 
                    Un abbraccio, 
                    D. 
                 
                L'idea 
                  ci è piaciuta. Non c'è scienza senza fantascienza, 
                  non c'è storia senza mitologia per cui abbracciamo l'argomento 
                  e lasciamo che sia proprio l'ispiratrice a tagliare il nastro. 
                  E speriamo di leggerne di belle
 
                  Il C. 
                 
                MICHELANGIOLO 
                  di Daniela Toti 
                Michelangiolo 
                  è un gianburrasca a detta di tutti. Lo conoscono dal 
                  Senhait a Cheren Lahlai. Gli piace fare tutte quelle cose che 
                  interessano i bambini vivaci. Corre sui muretti, anche quando 
                  questi sono alti due volte la sua altezza. Si arrampica sugli 
                  alberi da frutto che secondo la stagione possono essere i manghi, 
                  i gugù, gli zaituni. Quando passa davanti al negozio 
                  di generi alimentari, sfodera quel suo sorriso da cherubino, 
                  e saluta compito chi sta dietro al banco, sapendo di ottenere 
                  ora una caramella ora un biscottino. "Lavati le mani, Michelangiolo!" 
                  è la solita frase che gli rivolgono prima di consegnarli 
                  il premio e lui corre alla fontanella, tuffando le manine sotto 
                  il getto e chiazzandosi le gambe e il viso di bagnato sulla 
                  pelle ricoperta di quello strato sottile di polvere chiara che 
                  si alza dalle stradine bianche di Cheren quando corre.  
                  Al mercato delle granaglie tutti conoscono la piccola peste. 
                  Con i sandaletti coloniali di robusto cuoio marrone e la suola 
                  ricurva sulla punta, sentono lo scalpiccio dei suoi piedini 
                  prima ancora di vedere lui. E già sanno che, con il vento 
                  nei ricci ribelli, da lì a poco apparirà Michelangiolo, 
                  un calzino alto e uno arrotolato giù.  
                  Norai è il suo mercante preferito. Hanno inventato un 
                  gioco: finiscono tutte le parole con "aglia", immaginando 
                  così che nessuno li capisca.  
                  "Ciao Noraglia, come va la vitaglia?" "Non c'è 
                  malaglia, Michelangio-glia", risponde Norai, mai riuscendo 
                  nell'intento di pronunciare completo "Mi-che-lan-gio-la-glia". 
                  E il monello ride e gli dice: "Come hai detto? Dai, ripeti, 
                  come hai detto?". Norai al mercato vende anche i kolò, 
                  chicchi di grano tostato misti a piccoli ceci, e Michelangiolo 
                  riesce sempre a ottenerne un pugnetto che ficca in tasca, dove 
                  già c'è lo spago per la trottola. 
                  La trottola deve andare a prenderla al bottonificio De Rossi 
                  dove hanno le noci di palma dum con cui fanno i bottoni. Dentro 
                  le noci c'è il gheriglio, duro come l'avorio, che serve 
                  da trottola. Ha visto quelle che si sono costruiti due ragazzini 
                  più grandicelli, ed erano così belle che se le 
                  sogna di notte. Loro le hanno anche colorate e quando girano 
                  vorticosamente sembrano originare l'arcobaleno. 
                  Michelangiolo ha già tutto il programma in mente. Sarebbe 
                  andato al bottonificio, avrebbe scelto il cuore del frutto con 
                  la forma conica più simmetrica, indispensabile per ruotare 
                  velocemente e ne sarebbe uscita la più bella trottola 
                  del mondo. L'avrebbe portata dal calzolaio Malara, quello che 
                  ha anche fatto i suoi sandaletti, che gli ha promesso di infilarlo 
                  lui il chiodo con una martellata nel punto giusto, in punta. 
                  I frutti di palma dum ammassati sono davvero una collina e il 
                  muretto di recinzione li contiene a fatica. Michelangiolo però 
                  si dirige verso i frutti già mondati da buccia e polpa 
                  che serviranno per farne mangime. Il bimbetto è veloce 
                  come un ratto e il sorvegliante non lo vede proprio. Nascosto 
                  dietro un grosso bidone riesce a selezionare tra i tondi e duri 
                  gherigli quello che cerca. E' davvero una bella trottola rotonda 
                  e perfetta. La mette in tasca e sta per allontanarsi quando 
                  gli viene in mente Ibrahim. Deve sceglierne una anche per lui. 
                  Soddisfatto anche della seconda scelta, con un guizzo scavalca 
                  il muretto e via come il vento, alzando con i sandali una nuvoletta 
                  di polvere. 
                  Malara, che l'ha già sentito arrivare, nasconde un sorrisetto 
                  benevolo dietro un finto grugno e dice: "Non ho tempo, 
                  monello, non vedi che sto lavorando?" ma ha già 
                  preso le due trottole e ne sta bloccando la prima nella morsa 
                  che usa per bloccare le scarpe quando inchioda i tacchi nuovi. 
                  Un colpo preciso e fa il buco dove infilare il perno; qualche 
                  martellata e via il primo, sotto con il secondo, i perni sono 
                  dentro, perfetti. Il sorriso che illumina il volto di Michelangiolo 
                  è il grazie più radioso che costringe Malara a 
                  rilasciare finalmente libero il sorrisetto trattenuto. 
                  Michelangiolo ha la sua trottola.  
                  Può dedicarsi ora al suo secondo progetto, la fionda. 
                  Ibrahim gli ha detto che per farne una buona ci vogliono tre 
                  cose: il ramo adatto, un buon elastico e il pezzo di cuoio giusto. 
                  Ibrahim avrebbe cercato il ramo ma a lui spetta il cuoio ed 
                  ha già un'ideuzza in merito, che è maturata piano 
                  piano.  
                  Il nonno ha tante belle paia di scarpe che tiene tutte allineate 
                  nella stanzetta vicino la camera da letto. Le linguette delle 
                  scarpe del nonno sembrano fatte apposta per la fionda. La forma 
                  è adatta, le forbici sono sul tavolino accanto. I momento 
                  giusto è dopo pranzo quando su Cheren si stende la coltre 
                  del sonnellino pomeridiano che appisola tutti, uomini e donne, 
                  grandi e piccini. Non Michelangiolo, però, che ha sempre 
                  tanta energia e inventiva. Mentre il nonno dorme, con qualche 
                  zac abbastanza faticoso riesce a tagliare la linguetta del paio 
                  di scarpe più morbido, perché quelle degli altri 
                  scarponi sono troppo dure da tagliare. Infilate le linguette 
                  in tasca, bisogna ora tirare bene i lacci così i moncherini 
                  rimasti non si vedono più. Forse il nonno non se ne accorgerà
 
                  speriamo. 
                  Corre felice, tornando a casa, già pregustando la bella 
                  figura che farà con Ibrahim per l'ottima scelta del cuoio 
                  procurato, quando un brivido alla nuca anticipa gli altri sensi. 
                  Wolf gli è dietro. L'enorme pastore tedesco non è 
                  amico dei diaulet e dei bambini in genere. Gli fanno un sacco 
                  di dispetti quando è legato per cui se è libero 
                  dalla catena li rincorre appena li vede. Ma Michelangiolo è 
                  veloce e il portone di casa è ormai prossimo. Con il 
                  cuore in gola e le tempie che pulsano riesce a infilarlo, chiudendoselo 
                  dietro la schiena appoggiandosi contro. E' andata bene anche 
                  questa volta! Brutto bestione! Apre circospetto il portone a 
                  spiraglio, guardando il cane con un occhio solo, fa uscire appena 
                  la manina a taglio e sibila: "Ma se ti piglio..." 
                  e richiude subito, soddisfatto per avergliene cantate quattro! 
                  Via in cucina, che forse c'è un bel bicchiere di karkadè 
                  tiepido, come piace a lui. Il primo sorso gli arriccia il nasino, 
                  perché è asprigno, ma poi i sorsi successivi si 
                  portano via la sete, e finalmente il cuore si placa. "Bevi 
                  karkadè come i Tacruri!" gli dice canzonandolo il 
                  papà, che si rifornisce del miglior karkadè del 
                  paese da Iorini. Iorini con il karkadè produce anche 
                  la marmellata e le caramelle e quelle il nostro piccolo "tacruro" 
                  le ritiene una vera delizia. 
                  Oggi Michelangiolo indossa una giacchina nuova perché 
                  deve andare con la mamma e il papà ad un funerale greco. 
                  Piacciono molto al birichino i funerali greci perché 
                  in quell'occasione, dopo la messa, all'uscita della chiesa offrono 
                  dei cartocci di carta da zucchero a forma di cono pieni di farro 
                  cotto misto con chicchi di melograno, sesamo, confettini argentati 
                  e colorati
  
                  "'Ngiolo, - così lo chiama la mamma - non ti sporcare, 
                  mi raccomando, stai seduto lì, buonino finché 
                  è ora." Ma il ragazzino ha già altro per 
                  la mente. Deve portare ad Ibrahim il cuoio per le fionde. Dietro 
                  casa c'è un campo e in fondo è pieno di alberelli 
                  carichi di bacche gustosissime. Ne assaggerebbe volentieri qualcuna
 
                  ma sì, avrebbe fatto in fretta, una corsetta e sarebbe 
                  stato subito di ritorno. Mamma non se ne sarebbe nemmeno accorta. 
                  Sgattaiolando silenzioso dalla porta posteriore, scendendo gli 
                  scalini a due a due, ecco il campo. Il suo piccolo amico, Ibrahim, 
                  è già lì. Gli corre incontro ridendo dirigendosi 
                  poi entrambi verso gli alberelli. Passata a Ibrahim la merce 
                  sottratta alle scarpe nuove del nonno, ora l'attenzione di Michelangiolo 
                  è rivolta ai frutti. Ma non ci si può arrampicare 
                  su un alberello con una giacchina nuova! E' forse meglio toglierla 
                  e gettarla su una siepe. Una, due, dieci bacche. Quando finalmente 
                  le tasche sono colme è tempo di tornare a casa. "Ciao, 
                  Ibrahim, a presto!" e via di corsa.  
                  Arrivato a casa, la mamma gli corre incontro e gli dice: "'Ngiolo, 
                  dove sei andato che sei tutto spettinato? Hai impolverato le 
                  scarpe! Tira su i calzini! E la giacchina?" "Oh, la 
                  giacchina! L'ho dimenticata vicino alla pianta dei fruttini
" 
                  "Quali fruttini? Dove l'hai lasciata?" "Questi 
                  fruttini, mamma" e tira fuori una manciata di bacche. Intanto 
                  arriva Ibrahim trafelato sventolando la giacchina ormai sporca 
                  e stazzonata "'Ngiolo, hai dimenticato la giacca
" 
                  e la mamma sempre più confusa: "Ma che frutta è? 
                  E lui chi è?" e con tono sempre più alterato, 
                  guardando ora 'Ngiolo e ora Ibrahim: "Chi? Chi?...'Ngiolo!!!". 
                  "eh
 sì mamma, chi-chi-ngiolo, ecco, il fruttino 
                  si chiama proprio chichingiolo!" risponde tutto d'un fiato, 
                  infilando veloce la giacchetta. "Lui invece è il 
                  mio migliore amico, Ibrahim".  
                   
                NOTE 
                  AL TESTO 
                  Le giornate di Michelangiolo le ho costruite attingendo dai 
                  racconti di papà e dei miei zii che trascorsero la loro 
                  infanzia in piena libertà a Cheren.  
                  Il gioco con Noraglia era di mia zia Lorenzina. Ero presente 
                  all'incontro tra Lorenzina e Norai 25 anni dopo che Lorenzina 
                  aveva lasciato Cheren. Lorenzina è corsa incontro ed 
                  ha abbracciato il grosso mussulmano tutto vestito di bianco 
                  e intimidito dallo slancio, gridando: "Noraglia!", 
                  ma fu solo dopo essersi seduti e con una bibita in mano che 
                  finalmente Noraglia esordì: "Lerenzinaglia..." 
                  L'episodio della fionda ha avuto per protagonista mio papà. 
                  Le scarpe erano quelle nuove del nonno Barba. La giacca dimenticata 
                  nel campo di chichingioli era dello zio Renato, mentre i fan 
                  del farro dolce ai funerali greci erano tutti loro, ai quali 
                  si univa anche Loretta. La corsa a perdifiato con minaccia finale 
                  al cane è dello zio Franco.  
                  Romolo Iorini, nonno di Mario, Claudio e Loretta Toti, si dedicò, 
                  tra gli altri suoi interessi, anche alla divulgazione del karkadè 
                  (dal nome "karkadeb" come è chiamata la pianta 
                  nel dialetto Tacruri). 
                    
                  Malara era davvero il calzolaio di Cheren e di sua produzione 
                  erano quei tipici sandali coloniali con la punta in su che mamma 
                  ci proponeva da usare per le vacanze a Elaberet (la punta - 
                  diceva per convincerci - serve a riparare le dita dai colpi 
                  e dalla sabbia!) ma che noi detestavamo decise perché 
                  per niente femminili
 
                  Un posto di lavoro come tecnici al Bottonificio De Rossi fu 
                  forse il motivo per cui negli anni '20 mio nonno paterno Battista 
                  e suo fratello Angelo decisero di partire per l'A.O.I. 
                28 Maggio 2008 
               
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                      SER NICHOLO' 
                      di f.d. 
                     Io, 
                      Ser Nicholo' de' Conti Chigi, avventuriero e viaggiatore, 
                      uomo di gran mondo e noto ai più come cugino di Fiammetta 
                      de' Buontemponi, tuttora tutore di testi antichi che vanno 
                      dai cicli sanscriti ai manoscritti di Omero e Platone (e 
                      non si dica che millanto
), appassionato di patristica 
                      e agiografia, cultore di figure che restano nella memoria 
                      e che provengono dal mondo classico o biblico o imperiale 
                      o cavalleresco, venuto in possesso di certe carte che son 
                      Chanson de Geste di personaggi altrettanto antichi, 
                      ebbi la ventura, una sera di Maggio appena trascorso, annoiato 
                      dal brulicare operoso della compagnia che frequento, di 
                      ritirarmi nel mio studiolo e dedicarmi alla lettura. Scartai 
                      un tomo sulla servitù avignonese, rimisi tra la polvere 
                      un libercolo su certi svevi-aragonesi che aveano scorrazzato 
                      per la Trinacria, non giudicai degne di attenzione le fiabe 
                      delle eterne reginette che amano svelti garzoni che da stallieri 
                      si elevano a principi felici, e afferrai un taccuino di 
                      non eccessiva fattura che così si descriveva: "Del 
                      terzo giorno". Incuriosito, aprii e lessi. E non smisi 
                      che alla fine
 
                     
                       
                         
                           
                            1. "C'è stata ressa fino a tardi. Lunghe 
                            file fuori del cancello, soprattutto giapponesi, accaniti 
                            con il loro telefonino a fotografare tutto. Sono stati 
                            dispiegati i reparti anti-sommossa degli Arcangeli 
                            per controllare la situazione ma sono intervenuti 
                            solo una volta per fermare due intrusi, poi rivelatisi 
                            spie della Monsanto, che cercavano di asportare campioni 
                            di frutta, soprattutto mele. La coppia è stata 
                            scortata alla frontiera ed espulsa. Non si è 
                            vista né la stampa né la CNN, non si 
                            sono visti i critici ma non mancheranno, nei prossimi 
                            giorni, i titoloni sui giornali: "Nuovo Mondo, 
                            Grande Apertura!", "Inaugurato il Giardino 
                            delle Meraviglie", "Il Paradiso di ogni 
                            Cincinnato". Indubbiamente un gran successo di 
                            pubblico. 
                             
                            2. Non che tutto sia filato via liscio. I primi due 
                            giorni abbiamo lavorato senza luce. Stamattina alcune 
                            tubazioni si sono rotte e diverse zone sono state 
                            allagate. La ditta Noè è intervenuta 
                            e riparato le falle in meno di due ore ma ci sono 
                            ancora vaste aree invase dalle acque. Alcuni fari 
                            dell'illuminazione erano troppo forti e si è 
                            dovuto stendere un telo per riparare gli operai dal 
                            calore. 
                             
                            3. Poi gli intempestivi incidenti di percorso che 
                            hanno rischiato di mandare a monte l'apertura. Le 
                            ninfee sono cadute in acqua, le olive nell'olio, l'uva 
                            nei barili di vino che la ditta di catering stava 
                            trasportando per il rinfresco, le piante di fico d'india 
                            sono finite sotto le ruote dei TIR, i semi dei fichi 
                            d'india, destinati alla terra di Cush, sono finiti 
                            in Sicilia, i peperoncini si sono mischiati con la 
                            polvere da sparo, le orchidee sono rimaste impigliate 
                            fra i rami degli alberi, le rose ancora fresche sono 
                            finite tra le puntine da disegno, le pere si sono 
                            rivelate troppo pesanti sul fondo, il maltosio del 
                            grano è troppo tenero e solo domani riceveremo 
                            le nuove sementi di duro, è stata trovata acqua 
                            di cottura nelle noci di cocco, i frutti della palma 
                            dum sono stati tenuti troppo nei forni e sono immangiabili, 
                            nell'impasto per il tronco degli alberi è stata 
                            usata troppa carta. Per fortuna che c'è l'assicurazione
 
                             
                            4. Grande successo hanno riscosso i ceresus. La fioritura 
                            della pianta ha estasiato i visitatori: si nota la 
                            griffe di stilisti e designers di fama. Il legno è 
                            pregiato, i mobilieri Geppetto & C. ne hanno già 
                            chiesto l'impiego per mobili ed ebanisteria. Il frutto, 
                            detto ciriègia, per forma, aspetto e sapore 
                            è stato apprezzatissimo. Quei burloni de' Buontemponi, 
                            che hanno lanciato il prodotto e ne detengono il brevetto, 
                            l'hanno definito "gli orecchini di Bacco". 
                            Non ci vedo il nesso ma non si polemizza. I tungusi 
                            del Catai ne hanno fatto subito una imitazione che 
                            però regge male il confronto con l'originale. 
                            Manca innanzitutto l'elegante gambo, la polpa è 
                            acidula e ben lontana dal delizioso gusto dell'originale, 
                            resta fortemente aderente al nocciolo che tra l'altro 
                            è ruvido, e non se ne possono fare marmellate, 
                            sciroppi, sorbetti, mostarde e liquori. Ne ricavano, 
                            si mormora, un brodo che può provocare euforia 
                            o gioia. Può vivere nei luoghi aridi e, se 
                            consumato secco, assume una dolcezza che ricorda la 
                            mela. Non ha neppure un nome: poco male, mi annuncia 
                            pacifico Enoc, un collega che arriva dalla riva occidentale 
                            del Mar Rosso, a quello ci penserà Michelangiolo. 
                             
                            5. Ci fermiamo a guardare la folla che defluisce: 
                            il tempo di pasturare i pesci, dare il miglio alle 
                            tortore, chiudere gli animali striscianti nei recinti, 
                            allontanare al largo i mostri marini, spegnere le 
                            luci e potremo dire che anche questo terzo giorno 
                            è stato un ornamento del tempo che verrà." 
                            
                             
                            7 Giugno 2008 
                         
                       
                     
                   
                 
               
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                    CHICCHIDINGIOLI 
                    di Elvira Romano Fenili 
                    Tutti 
                    i disegni sono tratti dal libro "Ascari K7" di Paolo 
                    Caccia Dominioni (Longanesi & C. Milano, 1966, pagg. 8, 
                    75, 471) e sono dell'Autore. 
                    
                   "Maggiore, 
                    le nostre scorte di viveri sono esaurite e anche l'acqua scarseggia". 
                    Il maggiore, il volto maturo provato dagli eventi devastanti 
                    degli ultimi giorni, rivolse il suo sguardo stanco sul giovane 
                    capitano. Non c'erano soluzioni, lo sapevano entrambi. 
                  L'ascaro 
                    Yonas, poco lontano, aveva ascoltato il rapporto del suo beneamato 
                    capitano. Yonas lo idolatrava, per lui si sarebbe buttato 
                    nel fuoco. Ma che fare? Da giorni resistevano agli attacchi 
                    del nemico, asserragliati tra le rocce, sotto il sole cocente 
                    e la polvere ovunque. Il momento era grave. Gli ascari erano 
                    forti, pronti a tutto, duri come acciaio, ma i bianchi non 
                    erano abituati a quel clima, alla carenza d'acqua e di cibo. 
                    Che fare? Yonas sentiva che una soluzione doveva essere trovata 
                    subito e ad ogni costo. Ma che cosa e dove? Avevano già 
                    cercato dappertutto, tra le rocce, sotto sassi, tra gli scarni 
                    e rari cespugli, ovunque. Niente, non c'era nulla al di là 
                    della terra riarsa e polverosa e quegli alberi dagli strani 
                    frutti tondi, sconosciuti che per ordine superiore non si 
                    dovevano toccare, probabilmente perché velenosi. 
                    Ma
a mali estremi
 
                    
                  Yonas, 
                    ascaro fedele e ligio agli ordini, spinto dalla devozione 
                    per il suo capitano, decise per la prima volta di disubbidire 
                    e di fare segretamente da cavia. 
                    Raccolta di soppiatto una manciata di quei chicchi tondi, 
                    si appartò e senza esitazione incominciò ad 
                    infilarseli in bocca: uno, due, tre, quattro, masticando lentamente. 
                    Il sapore non era male, un po' asprigno, ma non spiacevole. 
                    Unico testimone dell'evento era l'amico fraterno Habte, a 
                    cui Yonas aveva raccomandato, nel caso fosse rimasto fulminato 
                    dal veleno di quei frutti sconosciuti, di dargli dignitosa 
                    sepoltura e di portare lui la notizia ai suoi in paese. 
                    Habte lo osservava con ansia. "Quanto si deve aspettare?". 
                    "Non lo so" , rispose Yonas, "devo prima digerirli. 
                    Aspettiamo un paio d'ore". "Vuoi dell'acqua?", 
                    gli chiese Habte, pronto a sacrificare la sua magra scorta 
                    del liquido prezioso per l'amico fraterno. "No, aspettiamo", 
                    rispose serenamente Yonas. 
                    In realtà Yonas aveva il cuore pesante. Seduto in terra, 
                    con le spalle appoggiate alla parete rocciosa, fissava la 
                    volta stellata e rivedeva il viso dolcissimo della sua giovane 
                    sposa, della bambina che aveva allietato la loro unione e 
                    pensava a quello che sarebbe presto nato, forse un maschio, 
                    come sperava. Non voleva lasciare orfani i suoi figli, non 
                    così presto! E allora, perché mai aveva mangiato 
                    quei frutti asprigni? Non era un eroe, e poi la morte per 
                    avvelenamento era tutt'altro che eroica! Ma la fame che scavava, 
                    giorno dopo giorno, i lineamenti delicati e gentili del suo 
                    capitano, lo avevano spinto a tanto. 
                    Il capitano si era sempre mostrato umano con tutti loro, le 
                    punizioni erano rarissime e sempre giustificate e gli ascari 
                    lo idolatravano, per lui erano pronti a dare la vita. 
                    
                  Yonas 
                    fu scosso dai suoi pensieri dalla voce tesa di Habte: "Come 
                    ti senti?". Yonas, sbalordito, fissò lo sguardo 
                    sulla luna ormai pallida in cielo. Era quasi l'alba e lui 
                    era vivo, eccome! E si sentiva rifocillato. La gola chiusa 
                    dalla commozione, stentava a rispondere. Habte, costernato, 
                    allarmato dal silenzio, era in procinto di lanciare i suoi 
                    ululati di dolore, lo frenò la risata felice di Yonas. 
                    "Funziona! Sono vivo e non ho fame! Corriamo a dirlo 
                    al Capitano!".  
                    Yonas e Habte arrivarono trafelati davanti alla tenda del 
                    loro Capitano. Non ci fu bisogno di chiedere udienza perché 
                    lo videro da lontano che stava fumando sulla soglia, l'ultima 
                    sigaretta prima del grande finale. 
                    Le loro voci eccitate, la risata felice di Yonas, le mani 
                    di Habte colme dei chicchi tondi, piano, piano tutto prese 
                    forma. Il Capitano si portò in bocca lentamente un 
                    chicco, sotto lo sguardo estasiato di Yonas che ripeteva:" 
                    Buono, buono, mangia, mangia, signor Capitano", lo masticò, 
                    sputando il seme e lo sguardo risalì lungo il pendio, 
                    sugli alberi dove quei frutti crescevano in abbondanza: la 
                    fame era sconfitta, almeno quella
 
                    "Sono chicchi provvidenziali!", esclamò sorridendo 
                    il Capitano, "sono davvero chicchi d'angioli!". 
                    "Cosa ha detto?", chiese a Yonas Habte che conosceva 
                    meno bene l'italiano. "Ha detto che si chiamano chichidingioli", 
                    rispose Yonas commosso, storpiando leggermente il nome. "Chi
chingioli" 
                    gli fece eco Habte un po' incerto, ma con un sorriso luminoso. 
                    "Chichingioli", ripetè più sicuro, 
                    fra sè e sè, cercando di fissare nella memoria 
                    quella strana parola. Ne aveva da raccontare al suo ritorno 
                    in Paese! 
                  Elvira 
                    R. 
                    14 giugno 2008 
                  
 
                  CHICCHUS 
                    INGIOLUS AFRICANUS 
                  Caro 
                    Lord Kikki (con copia, per conoscenza, al Capo-rale), 
                    scrivo in gran fretta questa lettera, un po' in affanno, confesso, 
                    e vi spiego subito il perché. 
                  Poco 
                    fa sono stata contattata dal Prof. de' Quattrociocchi (il 
                    "de'" va rigorosamente scritto minuscolo e con l'apostrofo, 
                    mi ha sibilato severamente il Professore) il quale, con voce 
                    perentoria, dalla pesante "erre moscia", mi ha intimato 
                    di pubblicare im-me-dia-ta-men-te (sì, l'ha sillabato 
                    proprio così) la ritrattazione di quanto avevo scritto 
                    - oibò!- circa l'origine etimologica del nome "chichingiolo" 
                    che lui fa risalire al suo prozio (di cui porta il nome). 
                    Questi era nientedimeno che (e qui ripeto l'aggettivazione 
                    altisonante usata dal pronipote che, da quanto mi è 
                    stato possibile constatare, si incensa ascoltando la propria 
                    voce) l'insigne, l'esimio, l'eccelso Emeritus de' Quattrociocchi 
                    Incroce (Incroce era il ducato natio), Professor Emeritus 
                    Botanicus. 
                  In 
                    altre parole il nome "chichingiolo" che, come già 
                    ben sapete, Habte e Yonas avevano entrambi, chi più 
                    e chi meno distintamente, farfugliato estasiati, esisteva 
                    già - ahinoi!- nella ricca e facoltosa raccolta botanico-etimologica 
                    lasciata in eredità al prof. Emeritus dall'insigne 
                    prozio e peraltro ampiamente documentata - come ha tenuto 
                    a precisare lo stesso - anche nell'autobiografia "Memorie 
                    imperiture" [Editore Azek A. Garbugli, Valdichè, 
                    1900]. 
                  Permettetemi, 
                    ora, ancor prima di inoltrarmi ad illustrare il come, il quando 
                    ed il perché della storia, di fare una tanto doverosa 
                    quanto necessaria, seppur breve, premessa biografica del Professore 
                    in questione, così come mi è stata riferita 
                    dal suo discendente. 
                   
                    
                      Emeritus 
                        era il cadetto di una nobile famiglia le cui fortune erano 
                        sostanzialmente declinate nel corso dei secoli, ma non 
                        così l'orgoglio del nome. Se il primogenito, erede 
                        di poco o nulla, era stato dai nobili genitori battezzato 
                        Maximus, nella speranza che il nome fosse portatore di 
                        migliori prospettive per la famiglia, il secondogenito, 
                        il nostro appunto, era stato chiamato Emeritus, perchè 
                        a lui toccava mantenere alte, se non le sorti pecunarie, 
                        almeno quelle intellettuali del casato. 
                        Emeritus, fedele al suo nome, aveva fin dall'infanzia 
                        mostrato un grande interesse per la botanica. Si nascondeva 
                        nel giardino incolto del castello semi-diroccato dei suoi 
                        avi e si chinava per ore a studiare le foglie, i cespugli, 
                        le bacche; gli piaceva accarezzare i tronchi rugosi degli 
                        alberi secolari, si stendeva a terra per studiare da vicino 
                        un fiore o uno stelo d'erba e per ascoltare, come mi ebbe 
                        a dire il suo discendente (e qui, confesso che incominciai 
                        a nutrire seri dubbi sull'equilibrio mentale del nostro) 
                        il battito del cuore della terra (sì, proprio così, 
                        della terra!). Ma è meglio non divagare!  
                        Ovviamente la botanica era la materia verso cui Emeritus 
                        si sentiva non portato, ma trasportato, ispirato, affascinato 
                        (ci risiamo con l'aggettivazione iperbolica!). Gli anni 
                        universitari passarono in un lampo, con voti massimi. 
                        Seguirono altri anni di viaggi e studi intensi che gli 
                        valsero il titolo di Professore. 
                        Emeritus non si sentiva però soddisfatto. Gli orizzonti 
                        intorno a lui parevano essersi ristretti. L'Europa e l'Asia 
                        le aveva girate in lungo ed in largo e, botanicamente 
                        parlando, non gli offrivano più nulla. Sentiva 
                        lievitare dentro di sé il bisogno di espandere 
                        la conoscenza, di scoprire nuovi mondi, il suo animo anelava 
                        verso nuove mete. La spinta si faceva sempre più 
                        forte, ogni giorno di più. E l'Africa era lì. 
                        Sul mappamondo di legno che faceva girare distrattamente 
                        nel suo studio essa gli appariva invitante, immensa e 
                        sconosciuta. 
                        E così il nostro si recò in Africa. 
                      All'inizio, 
                        dopo un viaggio lungo ed estenuante che dalla costa del 
                        Mar Rosso lo portò verso l'interno, Emeritus rimase 
                        deluso dalla vegetazione. Sapeva che a quella altitudine, 
                        latitudine, mettendo in conto la scarsità delle 
                        piogge, non poteva certo aspettarsi di trovare una lussureggiante 
                        foresta equatoriale, tuttavia il paesaggio era estremamente 
                        brullo e arido, inospitale e riarso. La guida continuava 
                        a tranquillizzare l' "effendi" promettendo panorami 
                        più verdi al di là delle pendici rocciose 
                        che lumeggiavano all'orizzonte, mentre il cammello, su 
                        cui il professore era precariamente acciambellato, continuava 
                        a percorrere, imperturbabile con passo lento e costante, 
                        il sentiero sinuoso e stretto. 
                      Fu 
                        proprio durante la sosta nel tardo pomeriggio, mentre 
                        l'accampamento prendeva forma con i cammelli accosciati 
                        tutti intorno, con l'erezione di qualche tenda e l'accensione 
                        dei fuochi fumosi per cuocere la magra cena, che Emeritus, 
                        anima in pena ed in preda allo sconforto, errando pensieroso 
                        lungo una pista sassosa, lo vide. Era un albero diverso 
                        dai radi arbusti spinosi di cui era costellato il panorama. 
                        Questo si poteva ben chiamare albero ed era anche carico 
                        di strani frutti, piccoli chicchi tondi, simili a
 
                        ma no! Febbrilmente Emeritus avanzò quasi di corsa 
                        verso l'albero per arrestarsi incredulo a qualche passo 
                        dal tronco. Poteva essere - si chiedeva - che la Fortuna, 
                        dea capricciosa ed incostante, gli volesse finalmente 
                        sorridere? 
                        Poteva essere questo il mitico "chicchus ingiolus 
                        africanus", volgarmente detto "chichingiolo"? 
                        Con mano tremante, Emeritus staccò dal ramo una 
                        manciata di chicchi e tenendoli stretti al petto, nascosti, 
                        quasi che gli occhi altrui potessero rubargli quell'incredibile 
                        scoperta, si rifugiò dentro la sua tenda da cui 
                        né gli inviti preoccupati del capo-carovana, né 
                        le esortazioni supplichevoli del suo fedele servitore 
                        servirono a smuovere. 
                      Trascorse 
                        la notte, studiando intensamente, al lume di petrolio, 
                        il suo prezioso reperto. Aveva mandato a più riprese 
                        il fedele servitore all'albero per staccare un paio di 
                        rami carichi di quei chicchi che poi aveva di volta in 
                        volta schiacciato, polverizzato, annusato, assaggiato, 
                        tra la curiosità e l'ilarità dei carovanieri 
                        che si erano accalcati sulla soglia della tenda e per 
                        un po' si erano divertiti ad osservare Emeritus, sicuri 
                        che l'Altissimo (o, presumibilmente, l'intensa calura) 
                        gli avesse totalmente offuscato il ben dell'intelletto. 
                        Poi, annoiati, si erano dileguati, tornando ad accovacciarsi 
                        davanti ai fuochi del bivacco, lasciando il "povero 
                        effendi" alle prese con il suoi strani e pazzi esperimenti. 
                        Emeritus continuava a mormorare: "E' proprio lui: 
                        Chicchus Ingiolus!", raro esemplare, di cui poco 
                        o nulla si sapeva. C'era, ricordava vagamente, un cenno 
                        superficiale ed inconcludente in uno dei tanti tomi di 
                        botanica che aveva pazientemente consultato negli anni 
                        trascorsi, ma niente di più. 
                      Che 
                        scoperta! Che meraviglia! All'alba, Emeritus si rivolse 
                        euforico al suo fedele servitore che sonnecchiava accovacciato 
                        sulla soglia, e tenendo tra il pollice e l'indice un minuscolo 
                        chicco, gli disse sorridendo: "Questo si chiama chicchus 
                        ingiolus africanus". Il servitore tentò di 
                        imitarlo:"chic-chic-
" balbettò 
                        incerto. "Va bene", disse magnanimo Emeritus 
                        e sillabò: "Chi-chin-giolo". 
                        "Chi-chingiolo", mormorò deferente il 
                        servitore. 
                        "Chichingiolo", cantilenò il capo-carovaniere, 
                        felice che l'effendi fosse tornato in sè dopo la 
                        lunga notte insonne. 
                        "Chichingiolo" ripeterono in coro i carovanieri, 
                        mentre caricavano i cammelli e, ridendo, commentavano 
                        ironici: "Che strani nomi si inventano gli Europei 
                        per quei chicchi che da sempre chiamiamo 'gavà'! 
                        " 
                     
                   
                  Questa 
                    è in breve la storia di Emeritus. Ora, vi chiedo e 
                    mi chiedo, come si fa a conciliare la nascita etimologica 
                    "versione Yonas-Habte" con quella di ben altro calibro 
                    di Emeritus? A meno che tra i due litiganti non ne venga fuori 
                    un terzo
 a godersi il palio. 
                    Con i migliori ossequi ad entrambi e a tutti i Chichingioli 
                    e le Chichingiole. 
                  Elvira 
                    R. 
                    16 Giugno 2008 
                 
               
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