CHI
SIAMO NOI?
(LA MITOLOGIA)
LA
PREMESSA
Dopo
aver stabilito che siamo Zizifi ancorché ben lontani
dall'essere Mauriziani d'ordine ma sempre ramnacei di carattere,
ci è giunta questa mail:
Carissssimo,
Vuol dire che in momenti di particolare affettuosità
invece di Kikki ti potremmo anche chiamare Zizì per
Zizifo...
Lancio un'idea: inventiamoci l'origine del Chichingiolo, cioè
quando e come fu battezzato così. Ci sarà pur
stata una prima volta, quando qualcuno ha deciso di chiamarlo
Chichingiolo invece di lasciarlo Gavà/Gabà oppure
di chiamarlo Jujuba, o no? Diamo libertà alla fantasia,
condiamola di ironia, spruzziamola di originalità e
vai!!!
Ne uscisse qualcosa di simile al canto delle donne dell'altipiano,
sarebbe fantastico.
e in palio? Potrebbero votare i lettori che premieranno
la versione che preferiscono con il Chichingiolo AiM (Aureo-in-Maturità),
con il Chichingiolo QP (Quasi Pronto) e con il Chichingiolo
Adm (Addavvenì maturo).
Che ne dici?
A risentirci.
Un abbraccio,
D.
L'idea
ci è piaciuta. Non c'è scienza senza fantascienza,
non c'è storia senza mitologia per cui abbracciamo l'argomento
e lasciamo che sia proprio l'ispiratrice a tagliare il nastro.
E speriamo di leggerne di belle
Il C.
MICHELANGIOLO
di Daniela Toti
Michelangiolo
è un gianburrasca a detta di tutti. Lo conoscono dal
Senhait a Cheren Lahlai. Gli piace fare tutte quelle cose che
interessano i bambini vivaci. Corre sui muretti, anche quando
questi sono alti due volte la sua altezza. Si arrampica sugli
alberi da frutto che secondo la stagione possono essere i manghi,
i gugù, gli zaituni. Quando passa davanti al negozio
di generi alimentari, sfodera quel suo sorriso da cherubino,
e saluta compito chi sta dietro al banco, sapendo di ottenere
ora una caramella ora un biscottino. "Lavati le mani, Michelangiolo!"
è la solita frase che gli rivolgono prima di consegnarli
il premio e lui corre alla fontanella, tuffando le manine sotto
il getto e chiazzandosi le gambe e il viso di bagnato sulla
pelle ricoperta di quello strato sottile di polvere chiara che
si alza dalle stradine bianche di Cheren quando corre.
Al mercato delle granaglie tutti conoscono la piccola peste.
Con i sandaletti coloniali di robusto cuoio marrone e la suola
ricurva sulla punta, sentono lo scalpiccio dei suoi piedini
prima ancora di vedere lui. E già sanno che, con il vento
nei ricci ribelli, da lì a poco apparirà Michelangiolo,
un calzino alto e uno arrotolato giù.
Norai è il suo mercante preferito. Hanno inventato un
gioco: finiscono tutte le parole con "aglia", immaginando
così che nessuno li capisca.
"Ciao Noraglia, come va la vitaglia?" "Non c'è
malaglia, Michelangio-glia", risponde Norai, mai riuscendo
nell'intento di pronunciare completo "Mi-che-lan-gio-la-glia".
E il monello ride e gli dice: "Come hai detto? Dai, ripeti,
come hai detto?". Norai al mercato vende anche i kolò,
chicchi di grano tostato misti a piccoli ceci, e Michelangiolo
riesce sempre a ottenerne un pugnetto che ficca in tasca, dove
già c'è lo spago per la trottola.
La trottola deve andare a prenderla al bottonificio De Rossi
dove hanno le noci di palma dum con cui fanno i bottoni. Dentro
le noci c'è il gheriglio, duro come l'avorio, che serve
da trottola. Ha visto quelle che si sono costruiti due ragazzini
più grandicelli, ed erano così belle che se le
sogna di notte. Loro le hanno anche colorate e quando girano
vorticosamente sembrano originare l'arcobaleno.
Michelangiolo ha già tutto il programma in mente. Sarebbe
andato al bottonificio, avrebbe scelto il cuore del frutto con
la forma conica più simmetrica, indispensabile per ruotare
velocemente e ne sarebbe uscita la più bella trottola
del mondo. L'avrebbe portata dal calzolaio Malara, quello che
ha anche fatto i suoi sandaletti, che gli ha promesso di infilarlo
lui il chiodo con una martellata nel punto giusto, in punta.
I frutti di palma dum ammassati sono davvero una collina e il
muretto di recinzione li contiene a fatica. Michelangiolo però
si dirige verso i frutti già mondati da buccia e polpa
che serviranno per farne mangime. Il bimbetto è veloce
come un ratto e il sorvegliante non lo vede proprio. Nascosto
dietro un grosso bidone riesce a selezionare tra i tondi e duri
gherigli quello che cerca. E' davvero una bella trottola rotonda
e perfetta. La mette in tasca e sta per allontanarsi quando
gli viene in mente Ibrahim. Deve sceglierne una anche per lui.
Soddisfatto anche della seconda scelta, con un guizzo scavalca
il muretto e via come il vento, alzando con i sandali una nuvoletta
di polvere.
Malara, che l'ha già sentito arrivare, nasconde un sorrisetto
benevolo dietro un finto grugno e dice: "Non ho tempo,
monello, non vedi che sto lavorando?" ma ha già
preso le due trottole e ne sta bloccando la prima nella morsa
che usa per bloccare le scarpe quando inchioda i tacchi nuovi.
Un colpo preciso e fa il buco dove infilare il perno; qualche
martellata e via il primo, sotto con il secondo, i perni sono
dentro, perfetti. Il sorriso che illumina il volto di Michelangiolo
è il grazie più radioso che costringe Malara a
rilasciare finalmente libero il sorrisetto trattenuto.
Michelangiolo ha la sua trottola.
Può dedicarsi ora al suo secondo progetto, la fionda.
Ibrahim gli ha detto che per farne una buona ci vogliono tre
cose: il ramo adatto, un buon elastico e il pezzo di cuoio giusto.
Ibrahim avrebbe cercato il ramo ma a lui spetta il cuoio ed
ha già un'ideuzza in merito, che è maturata piano
piano.
Il nonno ha tante belle paia di scarpe che tiene tutte allineate
nella stanzetta vicino la camera da letto. Le linguette delle
scarpe del nonno sembrano fatte apposta per la fionda. La forma
è adatta, le forbici sono sul tavolino accanto. I momento
giusto è dopo pranzo quando su Cheren si stende la coltre
del sonnellino pomeridiano che appisola tutti, uomini e donne,
grandi e piccini. Non Michelangiolo, però, che ha sempre
tanta energia e inventiva. Mentre il nonno dorme, con qualche
zac abbastanza faticoso riesce a tagliare la linguetta del paio
di scarpe più morbido, perché quelle degli altri
scarponi sono troppo dure da tagliare. Infilate le linguette
in tasca, bisogna ora tirare bene i lacci così i moncherini
rimasti non si vedono più. Forse il nonno non se ne accorgerà
speriamo.
Corre felice, tornando a casa, già pregustando la bella
figura che farà con Ibrahim per l'ottima scelta del cuoio
procurato, quando un brivido alla nuca anticipa gli altri sensi.
Wolf gli è dietro. L'enorme pastore tedesco non è
amico dei diaulet e dei bambini in genere. Gli fanno un sacco
di dispetti quando è legato per cui se è libero
dalla catena li rincorre appena li vede. Ma Michelangiolo è
veloce e il portone di casa è ormai prossimo. Con il
cuore in gola e le tempie che pulsano riesce a infilarlo, chiudendoselo
dietro la schiena appoggiandosi contro. E' andata bene anche
questa volta! Brutto bestione! Apre circospetto il portone a
spiraglio, guardando il cane con un occhio solo, fa uscire appena
la manina a taglio e sibila: "Ma se ti piglio..."
e richiude subito, soddisfatto per avergliene cantate quattro!
Via in cucina, che forse c'è un bel bicchiere di karkadè
tiepido, come piace a lui. Il primo sorso gli arriccia il nasino,
perché è asprigno, ma poi i sorsi successivi si
portano via la sete, e finalmente il cuore si placa. "Bevi
karkadè come i Tacruri!" gli dice canzonandolo il
papà, che si rifornisce del miglior karkadè del
paese da Iorini. Iorini con il karkadè produce anche
la marmellata e le caramelle e quelle il nostro piccolo "tacruro"
le ritiene una vera delizia.
Oggi Michelangiolo indossa una giacchina nuova perché
deve andare con la mamma e il papà ad un funerale greco.
Piacciono molto al birichino i funerali greci perché
in quell'occasione, dopo la messa, all'uscita della chiesa offrono
dei cartocci di carta da zucchero a forma di cono pieni di farro
cotto misto con chicchi di melograno, sesamo, confettini argentati
e colorati
"'Ngiolo, - così lo chiama la mamma - non ti sporcare,
mi raccomando, stai seduto lì, buonino finché
è ora." Ma il ragazzino ha già altro per
la mente. Deve portare ad Ibrahim il cuoio per le fionde. Dietro
casa c'è un campo e in fondo è pieno di alberelli
carichi di bacche gustosissime. Ne assaggerebbe volentieri qualcuna
ma sì, avrebbe fatto in fretta, una corsetta e sarebbe
stato subito di ritorno. Mamma non se ne sarebbe nemmeno accorta.
Sgattaiolando silenzioso dalla porta posteriore, scendendo gli
scalini a due a due, ecco il campo. Il suo piccolo amico, Ibrahim,
è già lì. Gli corre incontro ridendo dirigendosi
poi entrambi verso gli alberelli. Passata a Ibrahim la merce
sottratta alle scarpe nuove del nonno, ora l'attenzione di Michelangiolo
è rivolta ai frutti. Ma non ci si può arrampicare
su un alberello con una giacchina nuova! E' forse meglio toglierla
e gettarla su una siepe. Una, due, dieci bacche. Quando finalmente
le tasche sono colme è tempo di tornare a casa. "Ciao,
Ibrahim, a presto!" e via di corsa.
Arrivato a casa, la mamma gli corre incontro e gli dice: "'Ngiolo,
dove sei andato che sei tutto spettinato? Hai impolverato le
scarpe! Tira su i calzini! E la giacchina?" "Oh, la
giacchina! L'ho dimenticata vicino alla pianta dei fruttini
"
"Quali fruttini? Dove l'hai lasciata?" "Questi
fruttini, mamma" e tira fuori una manciata di bacche. Intanto
arriva Ibrahim trafelato sventolando la giacchina ormai sporca
e stazzonata "'Ngiolo, hai dimenticato la giacca
"
e la mamma sempre più confusa: "Ma che frutta è?
E lui chi è?" e con tono sempre più alterato,
guardando ora 'Ngiolo e ora Ibrahim: "Chi? Chi?...'Ngiolo!!!".
"eh
sì mamma, chi-chi-ngiolo, ecco, il fruttino
si chiama proprio chichingiolo!" risponde tutto d'un fiato,
infilando veloce la giacchetta. "Lui invece è il
mio migliore amico, Ibrahim".
NOTE
AL TESTO
Le giornate di Michelangiolo le ho costruite attingendo dai
racconti di papà e dei miei zii che trascorsero la loro
infanzia in piena libertà a Cheren.
Il gioco con Noraglia era di mia zia Lorenzina. Ero presente
all'incontro tra Lorenzina e Norai 25 anni dopo che Lorenzina
aveva lasciato Cheren. Lorenzina è corsa incontro ed
ha abbracciato il grosso mussulmano tutto vestito di bianco
e intimidito dallo slancio, gridando: "Noraglia!",
ma fu solo dopo essersi seduti e con una bibita in mano che
finalmente Noraglia esordì: "Lerenzinaglia..."
L'episodio della fionda ha avuto per protagonista mio papà.
Le scarpe erano quelle nuove del nonno Barba. La giacca dimenticata
nel campo di chichingioli era dello zio Renato, mentre i fan
del farro dolce ai funerali greci erano tutti loro, ai quali
si univa anche Loretta. La corsa a perdifiato con minaccia finale
al cane è dello zio Franco.
Romolo Iorini, nonno di Mario, Claudio e Loretta Toti, si dedicò,
tra gli altri suoi interessi, anche alla divulgazione del karkadè
(dal nome "karkadeb" come è chiamata la pianta
nel dialetto Tacruri).
Malara era davvero il calzolaio di Cheren e di sua produzione
erano quei tipici sandali coloniali con la punta in su che mamma
ci proponeva da usare per le vacanze a Elaberet (la punta -
diceva per convincerci - serve a riparare le dita dai colpi
e dalla sabbia!) ma che noi detestavamo decise perché
per niente femminili
Un posto di lavoro come tecnici al Bottonificio De Rossi fu
forse il motivo per cui negli anni '20 mio nonno paterno Battista
e suo fratello Angelo decisero di partire per l'A.O.I.
28 Maggio 2008
|
SER NICHOLO'
di f.d.
Io,
Ser Nicholo' de' Conti Chigi, avventuriero e viaggiatore,
uomo di gran mondo e noto ai più come cugino di Fiammetta
de' Buontemponi, tuttora tutore di testi antichi che vanno
dai cicli sanscriti ai manoscritti di Omero e Platone (e
non si dica che millanto
), appassionato di patristica
e agiografia, cultore di figure che restano nella memoria
e che provengono dal mondo classico o biblico o imperiale
o cavalleresco, venuto in possesso di certe carte che son
Chanson de Geste di personaggi altrettanto antichi,
ebbi la ventura, una sera di Maggio appena trascorso, annoiato
dal brulicare operoso della compagnia che frequento, di
ritirarmi nel mio studiolo e dedicarmi alla lettura. Scartai
un tomo sulla servitù avignonese, rimisi tra la polvere
un libercolo su certi svevi-aragonesi che aveano scorrazzato
per la Trinacria, non giudicai degne di attenzione le fiabe
delle eterne reginette che amano svelti garzoni che da stallieri
si elevano a principi felici, e afferrai un taccuino di
non eccessiva fattura che così si descriveva: "Del
terzo giorno". Incuriosito, aprii e lessi. E non smisi
che alla fine
1. "C'è stata ressa fino a tardi. Lunghe
file fuori del cancello, soprattutto giapponesi, accaniti
con il loro telefonino a fotografare tutto. Sono stati
dispiegati i reparti anti-sommossa degli Arcangeli
per controllare la situazione ma sono intervenuti
solo una volta per fermare due intrusi, poi rivelatisi
spie della Monsanto, che cercavano di asportare campioni
di frutta, soprattutto mele. La coppia è stata
scortata alla frontiera ed espulsa. Non si è
vista né la stampa né la CNN, non si
sono visti i critici ma non mancheranno, nei prossimi
giorni, i titoloni sui giornali: "Nuovo Mondo,
Grande Apertura!", "Inaugurato il Giardino
delle Meraviglie", "Il Paradiso di ogni
Cincinnato". Indubbiamente un gran successo di
pubblico.
2. Non che tutto sia filato via liscio. I primi due
giorni abbiamo lavorato senza luce. Stamattina alcune
tubazioni si sono rotte e diverse zone sono state
allagate. La ditta Noè è intervenuta
e riparato le falle in meno di due ore ma ci sono
ancora vaste aree invase dalle acque. Alcuni fari
dell'illuminazione erano troppo forti e si è
dovuto stendere un telo per riparare gli operai dal
calore.
3. Poi gli intempestivi incidenti di percorso che
hanno rischiato di mandare a monte l'apertura. Le
ninfee sono cadute in acqua, le olive nell'olio, l'uva
nei barili di vino che la ditta di catering stava
trasportando per il rinfresco, le piante di fico d'india
sono finite sotto le ruote dei TIR, i semi dei fichi
d'india, destinati alla terra di Cush, sono finiti
in Sicilia, i peperoncini si sono mischiati con la
polvere da sparo, le orchidee sono rimaste impigliate
fra i rami degli alberi, le rose ancora fresche sono
finite tra le puntine da disegno, le pere si sono
rivelate troppo pesanti sul fondo, il maltosio del
grano è troppo tenero e solo domani riceveremo
le nuove sementi di duro, è stata trovata acqua
di cottura nelle noci di cocco, i frutti della palma
dum sono stati tenuti troppo nei forni e sono immangiabili,
nell'impasto per il tronco degli alberi è stata
usata troppa carta. Per fortuna che c'è l'assicurazione
4. Grande successo hanno riscosso i ceresus. La fioritura
della pianta ha estasiato i visitatori: si nota la
griffe di stilisti e designers di fama. Il legno è
pregiato, i mobilieri Geppetto & C. ne hanno già
chiesto l'impiego per mobili ed ebanisteria. Il frutto,
detto ciriègia, per forma, aspetto e sapore
è stato apprezzatissimo. Quei burloni de' Buontemponi,
che hanno lanciato il prodotto e ne detengono il brevetto,
l'hanno definito "gli orecchini di Bacco".
Non ci vedo il nesso ma non si polemizza. I tungusi
del Catai ne hanno fatto subito una imitazione che
però regge male il confronto con l'originale.
Manca innanzitutto l'elegante gambo, la polpa è
acidula e ben lontana dal delizioso gusto dell'originale,
resta fortemente aderente al nocciolo che tra l'altro
è ruvido, e non se ne possono fare marmellate,
sciroppi, sorbetti, mostarde e liquori. Ne ricavano,
si mormora, un brodo che può provocare euforia
o gioia. Può vivere nei luoghi aridi e, se
consumato secco, assume una dolcezza che ricorda la
mela. Non ha neppure un nome: poco male, mi annuncia
pacifico Enoc, un collega che arriva dalla riva occidentale
del Mar Rosso, a quello ci penserà Michelangiolo.
5. Ci fermiamo a guardare la folla che defluisce:
il tempo di pasturare i pesci, dare il miglio alle
tortore, chiudere gli animali striscianti nei recinti,
allontanare al largo i mostri marini, spegnere le
luci e potremo dire che anche questo terzo giorno
è stato un ornamento del tempo che verrà."
7 Giugno 2008
|
CHICCHIDINGIOLI
di Elvira Romano Fenili
Tutti
i disegni sono tratti dal libro "Ascari K7" di Paolo
Caccia Dominioni (Longanesi & C. Milano, 1966, pagg. 8,
75, 471) e sono dell'Autore.
"Maggiore,
le nostre scorte di viveri sono esaurite e anche l'acqua scarseggia".
Il maggiore, il volto maturo provato dagli eventi devastanti
degli ultimi giorni, rivolse il suo sguardo stanco sul giovane
capitano. Non c'erano soluzioni, lo sapevano entrambi.
L'ascaro
Yonas, poco lontano, aveva ascoltato il rapporto del suo beneamato
capitano. Yonas lo idolatrava, per lui si sarebbe buttato
nel fuoco. Ma che fare? Da giorni resistevano agli attacchi
del nemico, asserragliati tra le rocce, sotto il sole cocente
e la polvere ovunque. Il momento era grave. Gli ascari erano
forti, pronti a tutto, duri come acciaio, ma i bianchi non
erano abituati a quel clima, alla carenza d'acqua e di cibo.
Che fare? Yonas sentiva che una soluzione doveva essere trovata
subito e ad ogni costo. Ma che cosa e dove? Avevano già
cercato dappertutto, tra le rocce, sotto sassi, tra gli scarni
e rari cespugli, ovunque. Niente, non c'era nulla al di là
della terra riarsa e polverosa e quegli alberi dagli strani
frutti tondi, sconosciuti che per ordine superiore non si
dovevano toccare, probabilmente perché velenosi.
Ma
a mali estremi
Yonas,
ascaro fedele e ligio agli ordini, spinto dalla devozione
per il suo capitano, decise per la prima volta di disubbidire
e di fare segretamente da cavia.
Raccolta di soppiatto una manciata di quei chicchi tondi,
si appartò e senza esitazione incominciò ad
infilarseli in bocca: uno, due, tre, quattro, masticando lentamente.
Il sapore non era male, un po' asprigno, ma non spiacevole.
Unico testimone dell'evento era l'amico fraterno Habte, a
cui Yonas aveva raccomandato, nel caso fosse rimasto fulminato
dal veleno di quei frutti sconosciuti, di dargli dignitosa
sepoltura e di portare lui la notizia ai suoi in paese.
Habte lo osservava con ansia. "Quanto si deve aspettare?".
"Non lo so" , rispose Yonas, "devo prima digerirli.
Aspettiamo un paio d'ore". "Vuoi dell'acqua?",
gli chiese Habte, pronto a sacrificare la sua magra scorta
del liquido prezioso per l'amico fraterno. "No, aspettiamo",
rispose serenamente Yonas.
In realtà Yonas aveva il cuore pesante. Seduto in terra,
con le spalle appoggiate alla parete rocciosa, fissava la
volta stellata e rivedeva il viso dolcissimo della sua giovane
sposa, della bambina che aveva allietato la loro unione e
pensava a quello che sarebbe presto nato, forse un maschio,
come sperava. Non voleva lasciare orfani i suoi figli, non
così presto! E allora, perché mai aveva mangiato
quei frutti asprigni? Non era un eroe, e poi la morte per
avvelenamento era tutt'altro che eroica! Ma la fame che scavava,
giorno dopo giorno, i lineamenti delicati e gentili del suo
capitano, lo avevano spinto a tanto.
Il capitano si era sempre mostrato umano con tutti loro, le
punizioni erano rarissime e sempre giustificate e gli ascari
lo idolatravano, per lui erano pronti a dare la vita.
Yonas
fu scosso dai suoi pensieri dalla voce tesa di Habte: "Come
ti senti?". Yonas, sbalordito, fissò lo sguardo
sulla luna ormai pallida in cielo. Era quasi l'alba e lui
era vivo, eccome! E si sentiva rifocillato. La gola chiusa
dalla commozione, stentava a rispondere. Habte, costernato,
allarmato dal silenzio, era in procinto di lanciare i suoi
ululati di dolore, lo frenò la risata felice di Yonas.
"Funziona! Sono vivo e non ho fame! Corriamo a dirlo
al Capitano!".
Yonas e Habte arrivarono trafelati davanti alla tenda del
loro Capitano. Non ci fu bisogno di chiedere udienza perché
lo videro da lontano che stava fumando sulla soglia, l'ultima
sigaretta prima del grande finale.
Le loro voci eccitate, la risata felice di Yonas, le mani
di Habte colme dei chicchi tondi, piano, piano tutto prese
forma. Il Capitano si portò in bocca lentamente un
chicco, sotto lo sguardo estasiato di Yonas che ripeteva:"
Buono, buono, mangia, mangia, signor Capitano", lo masticò,
sputando il seme e lo sguardo risalì lungo il pendio,
sugli alberi dove quei frutti crescevano in abbondanza: la
fame era sconfitta, almeno quella
"Sono chicchi provvidenziali!", esclamò sorridendo
il Capitano, "sono davvero chicchi d'angioli!".
"Cosa ha detto?", chiese a Yonas Habte che conosceva
meno bene l'italiano. "Ha detto che si chiamano chichidingioli",
rispose Yonas commosso, storpiando leggermente il nome. "Chi
chingioli"
gli fece eco Habte un po' incerto, ma con un sorriso luminoso.
"Chichingioli", ripetè più sicuro,
fra sè e sè, cercando di fissare nella memoria
quella strana parola. Ne aveva da raccontare al suo ritorno
in Paese!
Elvira
R.
14 giugno 2008
CHICCHUS
INGIOLUS AFRICANUS
Caro
Lord Kikki (con copia, per conoscenza, al Capo-rale),
scrivo in gran fretta questa lettera, un po' in affanno, confesso,
e vi spiego subito il perché.
Poco
fa sono stata contattata dal Prof. de' Quattrociocchi (il
"de'" va rigorosamente scritto minuscolo e con l'apostrofo,
mi ha sibilato severamente il Professore) il quale, con voce
perentoria, dalla pesante "erre moscia", mi ha intimato
di pubblicare im-me-dia-ta-men-te (sì, l'ha sillabato
proprio così) la ritrattazione di quanto avevo scritto
- oibò!- circa l'origine etimologica del nome "chichingiolo"
che lui fa risalire al suo prozio (di cui porta il nome).
Questi era nientedimeno che (e qui ripeto l'aggettivazione
altisonante usata dal pronipote che, da quanto mi è
stato possibile constatare, si incensa ascoltando la propria
voce) l'insigne, l'esimio, l'eccelso Emeritus de' Quattrociocchi
Incroce (Incroce era il ducato natio), Professor Emeritus
Botanicus.
In
altre parole il nome "chichingiolo" che, come già
ben sapete, Habte e Yonas avevano entrambi, chi più
e chi meno distintamente, farfugliato estasiati, esisteva
già - ahinoi!- nella ricca e facoltosa raccolta botanico-etimologica
lasciata in eredità al prof. Emeritus dall'insigne
prozio e peraltro ampiamente documentata - come ha tenuto
a precisare lo stesso - anche nell'autobiografia "Memorie
imperiture" [Editore Azek A. Garbugli, Valdichè,
1900].
Permettetemi,
ora, ancor prima di inoltrarmi ad illustrare il come, il quando
ed il perché della storia, di fare una tanto doverosa
quanto necessaria, seppur breve, premessa biografica del Professore
in questione, così come mi è stata riferita
dal suo discendente.
Emeritus
era il cadetto di una nobile famiglia le cui fortune erano
sostanzialmente declinate nel corso dei secoli, ma non
così l'orgoglio del nome. Se il primogenito, erede
di poco o nulla, era stato dai nobili genitori battezzato
Maximus, nella speranza che il nome fosse portatore di
migliori prospettive per la famiglia, il secondogenito,
il nostro appunto, era stato chiamato Emeritus, perchè
a lui toccava mantenere alte, se non le sorti pecunarie,
almeno quelle intellettuali del casato.
Emeritus, fedele al suo nome, aveva fin dall'infanzia
mostrato un grande interesse per la botanica. Si nascondeva
nel giardino incolto del castello semi-diroccato dei suoi
avi e si chinava per ore a studiare le foglie, i cespugli,
le bacche; gli piaceva accarezzare i tronchi rugosi degli
alberi secolari, si stendeva a terra per studiare da vicino
un fiore o uno stelo d'erba e per ascoltare, come mi ebbe
a dire il suo discendente (e qui, confesso che incominciai
a nutrire seri dubbi sull'equilibrio mentale del nostro)
il battito del cuore della terra (sì, proprio così,
della terra!). Ma è meglio non divagare!
Ovviamente la botanica era la materia verso cui Emeritus
si sentiva non portato, ma trasportato, ispirato, affascinato
(ci risiamo con l'aggettivazione iperbolica!). Gli anni
universitari passarono in un lampo, con voti massimi.
Seguirono altri anni di viaggi e studi intensi che gli
valsero il titolo di Professore.
Emeritus non si sentiva però soddisfatto. Gli orizzonti
intorno a lui parevano essersi ristretti. L'Europa e l'Asia
le aveva girate in lungo ed in largo e, botanicamente
parlando, non gli offrivano più nulla. Sentiva
lievitare dentro di sé il bisogno di espandere
la conoscenza, di scoprire nuovi mondi, il suo animo anelava
verso nuove mete. La spinta si faceva sempre più
forte, ogni giorno di più. E l'Africa era lì.
Sul mappamondo di legno che faceva girare distrattamente
nel suo studio essa gli appariva invitante, immensa e
sconosciuta.
E così il nostro si recò in Africa.
All'inizio,
dopo un viaggio lungo ed estenuante che dalla costa del
Mar Rosso lo portò verso l'interno, Emeritus rimase
deluso dalla vegetazione. Sapeva che a quella altitudine,
latitudine, mettendo in conto la scarsità delle
piogge, non poteva certo aspettarsi di trovare una lussureggiante
foresta equatoriale, tuttavia il paesaggio era estremamente
brullo e arido, inospitale e riarso. La guida continuava
a tranquillizzare l' "effendi" promettendo panorami
più verdi al di là delle pendici rocciose
che lumeggiavano all'orizzonte, mentre il cammello, su
cui il professore era precariamente acciambellato, continuava
a percorrere, imperturbabile con passo lento e costante,
il sentiero sinuoso e stretto.
Fu
proprio durante la sosta nel tardo pomeriggio, mentre
l'accampamento prendeva forma con i cammelli accosciati
tutti intorno, con l'erezione di qualche tenda e l'accensione
dei fuochi fumosi per cuocere la magra cena, che Emeritus,
anima in pena ed in preda allo sconforto, errando pensieroso
lungo una pista sassosa, lo vide. Era un albero diverso
dai radi arbusti spinosi di cui era costellato il panorama.
Questo si poteva ben chiamare albero ed era anche carico
di strani frutti, piccoli chicchi tondi, simili a
ma no! Febbrilmente Emeritus avanzò quasi di corsa
verso l'albero per arrestarsi incredulo a qualche passo
dal tronco. Poteva essere - si chiedeva - che la Fortuna,
dea capricciosa ed incostante, gli volesse finalmente
sorridere?
Poteva essere questo il mitico "chicchus ingiolus
africanus", volgarmente detto "chichingiolo"?
Con mano tremante, Emeritus staccò dal ramo una
manciata di chicchi e tenendoli stretti al petto, nascosti,
quasi che gli occhi altrui potessero rubargli quell'incredibile
scoperta, si rifugiò dentro la sua tenda da cui
né gli inviti preoccupati del capo-carovana, né
le esortazioni supplichevoli del suo fedele servitore
servirono a smuovere.
Trascorse
la notte, studiando intensamente, al lume di petrolio,
il suo prezioso reperto. Aveva mandato a più riprese
il fedele servitore all'albero per staccare un paio di
rami carichi di quei chicchi che poi aveva di volta in
volta schiacciato, polverizzato, annusato, assaggiato,
tra la curiosità e l'ilarità dei carovanieri
che si erano accalcati sulla soglia della tenda e per
un po' si erano divertiti ad osservare Emeritus, sicuri
che l'Altissimo (o, presumibilmente, l'intensa calura)
gli avesse totalmente offuscato il ben dell'intelletto.
Poi, annoiati, si erano dileguati, tornando ad accovacciarsi
davanti ai fuochi del bivacco, lasciando il "povero
effendi" alle prese con il suoi strani e pazzi esperimenti.
Emeritus continuava a mormorare: "E' proprio lui:
Chicchus Ingiolus!", raro esemplare, di cui poco
o nulla si sapeva. C'era, ricordava vagamente, un cenno
superficiale ed inconcludente in uno dei tanti tomi di
botanica che aveva pazientemente consultato negli anni
trascorsi, ma niente di più.
Che
scoperta! Che meraviglia! All'alba, Emeritus si rivolse
euforico al suo fedele servitore che sonnecchiava accovacciato
sulla soglia, e tenendo tra il pollice e l'indice un minuscolo
chicco, gli disse sorridendo: "Questo si chiama chicchus
ingiolus africanus". Il servitore tentò di
imitarlo:"chic-chic-
" balbettò
incerto. "Va bene", disse magnanimo Emeritus
e sillabò: "Chi-chin-giolo".
"Chi-chingiolo", mormorò deferente il
servitore.
"Chichingiolo", cantilenò il capo-carovaniere,
felice che l'effendi fosse tornato in sè dopo la
lunga notte insonne.
"Chichingiolo" ripeterono in coro i carovanieri,
mentre caricavano i cammelli e, ridendo, commentavano
ironici: "Che strani nomi si inventano gli Europei
per quei chicchi che da sempre chiamiamo 'gavà'!
"
Questa
è in breve la storia di Emeritus. Ora, vi chiedo e
mi chiedo, come si fa a conciliare la nascita etimologica
"versione Yonas-Habte" con quella di ben altro calibro
di Emeritus? A meno che tra i due litiganti non ne venga fuori
un terzo
a godersi il palio.
Con i migliori ossequi ad entrambi e a tutti i Chichingioli
e le Chichingiole.
Elvira
R.
16 Giugno 2008
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