Il
servire messa alla chiesa di San Francesco in Gaggiret era per
noi ragazzini del quartiere un privilegio, un traguardo che
si raggiungeva con gradualità, osservando i tempi della
gerarchia, dell'anzianità.
Si iniziava per i neofiti con la messa del mattino e si concludeva
con il vespro serale. Le messe della domenica, quella principale
delle 11 e le cerimonie dedicate ai matrimoni, era riservato
ai chierichetti anziani, mentre i funerali con la croce di Cristo
da portare in processione e l'incensiere da ruotare in continuazione,
lungo quella interminabile salita che ti portava sino al colle
di Thetherath, era devoluto a quelli che erano entrati da poco
nel sodalizio, come anche il rito delle campane, con le corde
che ti portavano su quasi a toccare il primo tratto del campanile.
Prima dell'entrata in vigore del Concilio Vaticano II, il servizio
liturgico veniva effettuato con le spalle rivolte ai fedeli
e l'Ufficiante faceva molto uso d'incenso. L'odore inebriante
riempiva le navate della splendida chiesa la cui facciata ancora
ora oggi si colora di rosso al tramonto. L'incenso penetrava
i muri, riempiva tutti gli angoli, i confessionali, ma permaneva
intenso, quasi soffocante, negli angoli dell'entrata principale
vicino alla due acquasantiere: l'ingresso delle spose sorridenti
o l'uscita per l'ultimo viaggio verso il tramonto della vita.
Era lì, nell'angolo di destra della chiesa, che trovavi
sempre Natalino. Appoggiato al muro, discreto, silenzioso, che
al termine della messa allungava la mano in maniera dignitosa.
Erano in molti generosi con Lui. Avrà avuto un età
indecifrabile, ma aveva purtroppo un difetto fisico certo: camminava
con fatica, aveva la mano sinistra offesa, ma soprattutto il
capo sempre reclino sulla spalla.
Era per tutti noi Natalino, ma con la perfidia che contraddistingue
la fanciullezza, lo chiamavano tutti con un po' di scherno,
"Natalino hanghelouai". Che è un epiteto intraducibile
ma che si può sintetizzare in "Natalino testa storta".
Nessuno di noi aveva il coraggio di apostrofarlo da vicino,
sicché il nostro coraggio si manifestava con una certa
ignominia da lontano. Quando il povero Natalino usciva, scendendo
le scale del Redentore e a fatica iniziava ad incamminarsi verso
il Collegio La Salle, noi codardi in coro, a debita distanza
di sicurezza, lungo la strada che portava verso la Fabbrica
dei mattoni, si intonava la solita litania, con una sintonia
degna del "Te Deum", cantato al vespro serale.
"Natalino hanghelouai", ripetuto in coro, all'unisono,
con l'aggiunta di qualche parola irriferibile.
Il povero Natalino si sforzava di alzare la testa per comprendere
dove fossero nascosti quei perfidi amici.
Madre natura aveva però dotato Natalino di una particolare
capacità.
Natalino era in grado di afferrare un sasso, inserirlo in una
fascia, farlo rotearlo e lanciarlo con grandissima precisione
lontanissimo, come un giavellotto che vibra nell'aria per poi
planare dolcemente a terra.
Questo esercizio lo faceva per rispondere al coro di scherno
di noi piccoli vandali.
E' il gioco e l'eccitazione nostra, consisteva nello schivare
i sassi lanciati dal povero Natalino.
Saltellavamo, correvamo, come dei forsennati e, per rendere
più intensa la sassaiola, aumentavamo d'intensità
il coro.
Ma il destino perfido, in quel pomeriggio che volgeva ormai
verso il tramonto, volle punirmi.
Un movimento improvvido, l'inesatto calcolo della traiettoria,
forse un raggio del sole al tramonto, ed ecco giungere con meticolosa
precisione, degno da artigliere, la vendetta di Natalino. Avvertii
un dolore sordo e subito la mia maglietta si colorò di
rosso: Natalino aveva colpito, aveva vinto la sua piccola battaglia
personale
Iniziai ad urlare per il dolore.
Mi caricarono su un calesse che passava nelle vicinanze e dopo
un interminabile viaggio, giunsi all'ospedale "Itegue Menen".
Ho dei vaghi ricordi del dottore, penso dalla parlata che fosse
un bulgaro, ma avverto ancora in maniera indelebile, il ricordo
del dolore che mi pervadeva mentre mi cuciva la testa.
Tornai a casa a piedi, avvolto da una grande fasciatura bianca,
la maglietta intrisa di sangue, come un ferito reduce da una
battaglia. Speravo in un gesto affettuoso della mamma, almeno
una semplice comprensione.
Alla mia vista non disse nulla: semplicemente iniziò
a ricorrermi per casa, come in occasione delle grande "marachella".
Fu una lunga corsa: io avanti e Lei sempre dietro. La maratona
si concluse intorno al letto grande di mamma, con Lei affaticata
nel tentativo invano di afferrarmi ed io, come un piccoletto
furetto, a saltellarLe intorno. Alla fine si arrese esausta,
priva di energia. Si giustificò dicendo che ero l'ultimo
dei suoi figli e con i primi non sarebbe mai finita cosi. Dopo
quella avventura, smisi di sfottere il povero Natalino. In chiesa
quando uscivo, mi allontanavo velocemente e a debita distanza
di sicurezza: avevo imparato la lezione. E ancora oggi, quando
mi soffermo davanti allo specchio, tra i capelli ormai diradati
e canuti, vedo stagliarsi davanti, in maniera inequivocabile,
quel lungo taglio.
Lo osservo e penso al tempo che fu: penso alla mia bella Terra
ed ai suoi tramonti, penso ai molti che non ci sono più,
penso al povero Natalino.
Camillo